Finalmente su Netflix un film italiano che vale la pena guardare. Si chiama L’incredibile storia dell’Isola delle Rose. Racconta il percorso dell’isola artificiale costruita alla fine degli anni 60 al largo delle coste di Rimini. L’ideatore è un ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, frustrato dall’impossibilità di vivere in una società più aperta alle sue innovazioni strampalate, ma funzionanti e che alla fine decide di costruire un suo stato. Una nazione vera e propria su una piattaforma al di fuori delle acque territoriali italiane con francobolli, valuta e passaporti. La fama dell’isola si allarga presto e diventa un luogo di incontro, di svago e contro-cultura per i giovani dell’epoca. La storia coinvolge, perché ci si immedesima nella sua battaglia idealista contro lo status quo, rappresentato da uno stato cattocomunista che cerca in tutti i modi di evitare un pericoloso precedente (nel film la parte più godibile è la narrazione politica, con gli scambi tra l’allora primo ministro Giovanni Leone e il suo ministro dell’interno Franco Restivo).
Per caso, considerando anche a chi è dedicato questo sito, la storia dell’Isola delle Rose ricorda lateralmente la storia del parco cachemire (Paisley Park 😂)? Paisley Park fu l’Isola delle Rose di Prince. Gli studi di Chanhassen sono stati la nazione autonoma dove governava (o imperava) Prince. La sua moneta erano le canzoni. Il passaporto erano i suoi concerti. Chi era il grande nemico di Prince, che nel film dell’Isola delle Rose è lo stato italiano? Forse gli stereotipi. Le categorie musicali e sociali. La disco e il rock. Per Prince non esistevano confini, non c’erano acque territoriali. Come gli uccellini che migrano sopra le nostre teste, impavidi dei confini, della Brexit e guidati solo dall’istinto. Lo stesso istinto, o gut (la pancia degli inglesi), che tracciava la strada della musica di Prince. Che gli intimava di rimanere chiuso a Paisley Park, senza contatti con l’esterno.
All’inizio della storia di Paisley Park, lo dimostrano le perle che stanno uscendo (per fortuna) dal Vault, il mondo di Prince era in battaglia contro il mainstream, rimanendo nel mainstream. Diventando il mainstream. Anche Prince incontrò il successo, riuscendo a rimanerne di fuori. Era la musica il suo strumento principale. Oggi i musicisti non fanno concerti perché mettono in piazza tutta la loro vita con i social. Prince sapeva o voleva misurare le parole, buttando lì delle fandonie per interessare il pubblico tipo quella che era di origine italiana. O la sua preferita, cioè che ogni tournée era la sua ultima tournée.
Adoravo la sua capacità di isolarsi a Paisley Park e di chiudere i rapporti con gli estranei, ampliando peraltro a dismisura la definizione di estraneo. Il suo solo obiettivo era produrre canzoni. Esplorare mondi musicali e implorare le donne nelle sue canzoni. Chissà, forse anch’io mi sono fatto un’immagine ideale di Prince, costruita su quello che so, che non è detto che sia vicino alla verità. Ma queste sono le regole del gioco dove è necessario avere il pathos della distanza. Non ti dovevi e non potevi avvicinarti troppo a Prince. E questo valeva – ovviamente – per i fan e anche per i cosiddetti esperti giornalisti.
Prince fu attratto dai social. Aveva un account di twitter dove scriveva post che poi cancellava. Un account su Instagram, dove Prince poteva mostrare la sua passione per la fotografia, che presto venne ribattezzato Princegram. Qualche sprazzo di streaming in diretta e un account su Facebook dedicato a lui con le ragazze, le 3rdeyegirl.
Prince non voleva raccontare la quotidianità come fanno i cantanti di oggi. Nessuna Emily che gli gestisse gli account dei social, Prince aveva rivisto alla sua maniera i social, per non cadere nella trappola dell’uniformità (e della falsa intimità). I cantanti dei giorni nostri usano i social per farsi e fare pubblicità. Lo fanno in maniera esplicita. Oramai, è un vizio comune. Su linkedin trovi decine di persone che intendono dare una mano agli altri, manco fossimo tutti la Croce Rossa, con annunci tipo: aiuto le persone e le aziende a crescere. Sono forme astute per vendere un servizio senza sembrare dei commerciali. Non so voi, ma io in giro vedo solo persone che, giocando sul cellulare alle gemme, cercano di tirarmi sotto mentre attraverso la strada sulle strisce pedonali (mi è capitato veramente). Altroché aiutare. Un post ci può dare uno spunto. L’idea per un libro e per fare un lavoro, ma non sarà un social che ci aiuterà a studiare per quel lavoro o a trovare gli soft skills necessari per farci largo nella giungla degli open space. Ipotizzo, quindi, che l’uso dei social sia principalmente un’attività di marketing. Come se ognuno di noi sui social avesse, che so, un negozio di abbigliamento e volesse avvertirci quando fa i saldi. Con questo non dico che sia illegale, tutt’altro. Dico che certe cose dovremmo trovarle dentro di noi. C’è questo libro di Pietro Trabucchi intitolato Perseverare è umano, che intende diffondere le soluzioni trovate dagli sportivi a persone normali come me. Il problema è che è più semplice guardare una storia di Instagram, comprare un gratta e vinci e sperare nella fortuna per fare il salto in avanti. Tutte cose che faccio io. Ma George Bernard Shaw diceva La libertà significa responsabilità. Significa anche impegno e resistenza. Se potessi tornare da Simone di 30 anni fa gli direi di tenere duro e continuare a fare musica, di non ascoltare gli altri, non cedere alle sirene di un lavoro qualunque da lunedì a venerdì, con le ferie pagate. Oramai è andata così, ma mi rimane questo ultimo tratto di strada da percorrere (insieme a voi, se vi va).
La musica bellissima (di Prince) che ci accompagna e ci ha guidato fino ad oggi ce la siamo andati a cercare. Non era nascosta tre le storie di Instagram. Era tra le fresche frasche dei nostri inverni solitari. Avevo nel cuore e nella mente il funk. Non so perché, ma so che ho sempre amato il ritmo funk. E allora come fu che mi avvicinai a Prince? La curiosità di trovare qualcosa di nuovo, girando tra le radio e le televisioni di allora. Non conoscevo la sua storia, che non poco mi stupì quando lessi la biografia A Pop Life. Poi un giorno ebbi la conferma da mio fratello che, sentendo due cose della colonna sonora di Batman e sfinito dalla mia passione per i Pooh, mi parlò bene di Prince. Con Graffiti Bridge stavo girando sulla vecchia Cassanese quando un Dj alla radio disse: se vi piace il funk dovreste comprare l’ultimo album di Prince.
Ed eccoci qua.