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L'espresso: Ora Prince suona il Jazz

Articolo L’Espresso, che introduce il concerto del 15 luglio a Perugia.

Sembra ieri, invece sono trascorsi più di trent’anni da quando Prince, con “For You” (1978), iniziava a elaborare l’originale impasto ritmico e sonoro con il quale avrebbe cambiato per sempre il corso della black music. Da allora il folletto di Minneapolis ha continuato a sfornare dischi a ritmo forsennato, in media uno l’anno, tutti prodotti, suonati e arrangiati da lui, alternando vette come “1999”, “Purple Rain”, “Sign o’ Times”, “Musicology”, “The Rainbow Children” ad album pomposi e legati alla sua bulimia creativa.


Prince attinge a ogni fonte: elettronica, soul, blues, jazz, funk, pop, psichedelia, e la trasforma in qualcosa di artistico. Divertenti, super kitsch e imprevedibili sono i suoi concerti, dove il Nostro, anche oggi a 53 anni, usa spendersi per tre ore con una generosità che non teme confronti. Il suo ultimo, certo non definitivo, Avatar si vedrà a Umbria Jazz (Perugia, 15 luglio), unica data italiana del tour europeo. Certo, sebbene sappia utilizzare ottimi fraseggi jazz quando vuole – Miles Davis lo aveva battezzato “il nuovo Duke Ellington” – Prince non è da considerarsi un jazzista tradizionale: ma la musicalità e la spontaneità che riversa in qualsiasi cosa sfiori sono più fedeli al vero spirito del jazz di quanto non lo siano professionisti che capita di ascoltare.


Del resto proprio in virtù di quel nome Prince (Roger Nelson) affibbiatogli alla nascita dal padre pianista, lo si potrebbe iscrivere a quel Gotha affollato di re (Oliver), duchi (Ellington) e conti (Basie) che del jazz costituisce per tradizione l’aristocrazia. E a pensarci bene tra ritorni al futuro e fughe nel passato alle quali ci ha abituato, è proprio dalla tradizione della grande musica nera che il Principe di Minneapolis ha tratto ispirazione per inventare se stesso come musicista e personaggio. Le bizzarre performance degli anni Settanta a petto nudo, coperto solo da autoreggenti e un paio di slip zebrati, non strizzavano forse l’occhio a quell’ambiguità sessuale, al limite del transgender, che Little Richard aveva esibito vent’anni addietro? La lingua che lecca il dito indice e poi giù con la mano fino alla patta, con buona pace di Michael Jackson, non allude per caso a una versione nera, bastarda e dannatamente sensuale del grande Elvis? Le acrobatiche piroette, i passi di danza che Prince intreccia a ogni spettacolo mentre strappa un assolo stellare alla sua Fender Stratocaster non lo accreditano come il più autorevole incrocio tra James Brown e Jimi Hendrix? Da una parte il padre del funk, dall’altra il massimo guitar hero della psichedelica nera. E nel mezzo lui, Prince, che ansima in un’orgia “funkadelica”.


Nella sua carriera Prince ha scritto canzoni bellissime, ma la sua stella ha rischiato di venire oscurata. Perché il mondo è cambiato ancora più velocemente di quanto non sia cambiato lui, che del mondo se ne è spesso e volentieri fregato: chiuso a Minneapolis negli studi di Pasley Park a creare un universo di fantasia tutto suo e dischi in cui è sempre lui a suonare tutti gli strumenti. Invece anche “20 ten”, il nuovo album uscito quest’anno, dal quale prende le mosse il tour, non è un disco scontato. Ottimamente suonato, ben prodotto, con diversi guizzi originali che rimandano ai migliori album degli anni Ottanta, all’altezza dello standard di qualità a cui il Principe ci ha abituato. Semmai traspare quell’autoironia e la voglia di mettersi in gioco che è il segno distintivo dei grandi artisti.


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