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L'ora di musicologia

Il 2004 è un’occasione unica per Prince: sono passati 20 anni da Purple Rain, le commemorazioni fanno sempre bene al marketing. Dal 1999 ha ripreso il suo vecchio nome, ritrovando antichi splendori (il concerto di Milano del 31 ottobre 2002 è sicuramente stato uno di questi).

E’ ora di uscire con un lavoro nuovo: “Musicology”. Prince ha finalmente trovato la libertà di distribuire la propria musica come meglio crede: il suo sito su internet rinominato Npg Music Club crea una strada preferenziale tra lui ed il suo pubblico. Tutto “Musicology” ed alcuni brani nuovi, i cyber-single, saranno venduti e distribuiti anche sul sito. Nella vite reale, Prince trova un accordo con la Sony, che distribuirà nei negozi Musicology e che gli permetterà di aprire i Grammy Awards assieme a Beyoncé. Appena finito il duetto, Justine Timberlake si girerà entusiasta verso il suo staff per dire loro: “this was hot!”.

Musicology è un buon disco, in alcuni momenti eccezionale. Prince, per una volta, è umile. Si guarda allo specchio, pensa a ciò che sa fare bene, cioè suonare senza fare sermoni. Permette alla quotidianità di ispirarlo: un gesto di umanità verso chi lo ascolta che non viene più rintronato da decine di riferimenti a testi antichi. Metodologicamente Prince ritorna quello di venti anni prima: si chiude in studio da solo e suona (quasi) tutti gli strumenti. Musicology finirà in un trittico di rock/blues che esplode in un unico lungo brano senza soluzione di continuità. E qui ci sono tutti: John Blackwell alla batteria, Maceo Parker ai fiati ed al basso Rhonda Smith.

Musicology e il suo tour sono un grande successo. Cavalcandone l’onda, persino la Sony Italiana sbaglia clamorosamente preannunciandone l’atterraggio in Italia l’autunno successivo, ma non c’è nulla da fare. Prince non verrà, non lascerà il continente americano: troppo bello godersi questo successo, così inatteso, dopo anni di magre consolazioni.

E’ un momento eccitante per Prince: è di moda andare ai suoi concerti: Eva Longoria, protagonista della serie di culto Disperate Housewives, torna esaltata da un concerto di Prince, tanto da raccontarlo in un intervista. Nella stessa intervista racconta anche di avere regalato un vibratore ad un amica, ma pare che questo non c’entrasse nulla con Prince.

Passa un anno e Prince doppia Musicology, con 3121, questa volta distribuito dall’Universal. Un lavoro più scuro, più difficile da accogliere. 3121 balza, sulla spinta di Musicology, immediatamente nelle prime posizioni della classifica, ma sarà un fuoco di paglia. I brani, che in alcuni momenti superano come composizione ed arrangiamenti Musicology, non hanno la stessa forza commerciale. Il primo singolo “Te Amo Corazon”, accompagnato da un video girato in Marocco e diretto dall’attrice Salma Hayek, è un brano piuttosto scarso. Prince ricomincia ad usare la propria creatività come un’arma puntata sui propri fan: pretende di far diventare oro qualsiasi cosa nasca dalla sua penna, al primo colpo, ma l’arte è 5% ispirazione e 95% traspirazione. “3121” è un funky suonato con i “vecchi” Michael B e Sonny T, riesumato dalla cantina di Paisley Park. Non sono più gli anni ottanta: Prince non spende più ore in studio a cercare un ritmo capriccioso o una melodia accattivante. Quando gli viene, come nella funkissima “Black Sweat”, il suo genio esplode in un arcobaleno di fiori, ma quando non funziona la sua musica diventa deprimente.

In 3121, Prince si fa accompagnare dalla voce di Tamar Davis. Una cantante meno grintosa di Tina Turner e attraente quasi come Beyoncé. In “Beautiful, Loved and Blessed” il risultato è ottimo. Lui la plasma a sua immagine e somiglianza. Lei lavora precisa in “Love” e i due si ritrovano a meraviglia. Classico spin-off sarebbe il lavoro da solista di Tamar, intitolato Milk & Honey. Lavoro che non vedrà mai la luce, ma che si perde nei risvolti della rete senza farsi notare.

Eppure, quando meno te lo aspetti, Prince ritrova la strada verso l’uscita grazie alla sola cosa che oggi sa veramente fare bene: suonare dal vivo.

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Che zuppa (di carote) che è Prince!

Ecco l’intervista che Prince concede a New Yorker.

Nulla di nuovo, ma un piccolo tentativo di dire la propria su alcuni argomenti sociali:

Quando gli si domanda la sua opinione su problematiche sociali, matrimoni gay ed aborto, Prince si appoggia sulla sua Bibbia e dice: “Dio venne sulla terra e vide gente infilarsi in ogni dove e farlo con chiunque e ha pulito tutto. Fu come dire: ora basta”.

Poi racconta di una donna che, come molti di noi fan farebbero volentieri, si era piazzata fuori dai cancelli Paisley Park.

Un giorno, sono è uscito per dirle: “hey, tutti i miei amici là dentro dicono che tu sei una stalker. E che dovrei chiamare la polizia. Ma non voglio farlo, così perché non mi dici che cosa vuoi che accada. Perché sei qui? Come vuoi che questo finisca?” Non aveva una vera risposta. Alla fine, tutto ciò che voleva era essere vista, che io la vedessi. Se n’è andata e non è mai più tornata.

Se ne sarà andata delusa?

Diciamo la verità, Prince a conoscerlo dal vivo deve essere un bel peso. Meglio fare i fan a dieci mila miglia a distanza.

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Prince is back

Nel 2004, Prince riprende la retta via. Sono passati 20 anni giusti da “Purple Rain”, ma anche 10 anni da Gold. In quei 10 anni tra i due grandi successi, uno di color viola, l’altro oro, Prince aveva conquistato il mondo vendendo più di 10 milioni di dischi con il primo, successo mai più conseguito, e aveva costruito quello che era il lavoro artisticamente più completo: “Sign O’ the Times” (anche se secondo me non il migliore). Mantiene la stessa ottima vena compositiva in “Lovesexy”, ma poi compie giravolte su sé stesso e sulla sua musica, ottenendo risultati altalenanti, peraltro sempre molto sopra la media dei suoi contemporanei. In tutto questo tempo infila, però, una serie di apparizioni dal vivo che entreranno nella leggenda, fino ad esplodere nel concerto di “Lovesexy” dove mostra sé stesso: tutto il suo passato ed il suo presente, con un po’ di futuro.

Fino all’inizio degli anni novanta Prince sembra indistruttibile. Ogni cosa che tocca diventa oro. Little Steven scriverà ironicamente nelle didascalie del libro (veramente) fotografico di Guido Harari: “odio Prince: ogni canzone che fa diventa un successo”. L’aura di Prince la si sente ancora tra il pubblico, la musica ed i musicisti. Il profumo di violette si diffonde nell’aria solo a sentire un ritmo funky in pizzeria. Dopo l’altalenante “Graffiti Bridge”, Prince ritorna ispirato; con i New Power Generation, una band ora finalmente più nera che altro, l’unico bianco è Tommy Barbarella. Sfodera “Diamonds & Pearls” e “Love Symbol”. Ad ogni uscita, però, i critici faranno la gara per ritrovare quel Prince cattivo, irritante, ma esplosivo in ogni nota. Prince, secondo loro, non lo è più. Ma non era una band nera? Prince si è ripulito e cerca il facile successo.

Prince continua a circondarsi di ottimi musicisti, che, però, alla prova della composizione lasciano il tempo che trovano. Gli arrangiamenti sembrano cercare la confusione (“Daddy Pop” o “My Name Is Prince”), più che la semplicità di una volta (“When Doves Cry”). A dirla tutta, le canzoni che lui scrive (forse) da solo hanno ancora un’energia inesauribile e colpiscono nel segno come un tempo (“The Continental” o “Damn U”). Ma quelle che nascono dal gruppo non possiedono nulla dell’illuminazione eterna dei Revolution. Wendy & Lisa lo ispiravano molto di più di Levi Seacer Jr. Dr.Funk è più fantasioso di Rosie Gaines.

Prince, forse, ha la testa da altre parti. I pessimi rapporti con la Warner peggiorano quando ne diventa vice-presidente. L’alba della battaglia non la si vede mai. Non mantiene le promesse che aveva fatto al suo pubblico. Non ha più tempo e voglia solo per la musica. Deve delegare ad altri.

A parte lo zoccolo di supporter che lo seguono ad occhi chiusi, Prince ne perde molti anche per i suoi nuovi atteggiamenti da supereroe. Non è più piccolo ed indifeso ad urlare la sua voglia di essere posseduto sdraiato sul palco allungando le mani verso le sottane delle fan; ora va in giro armato di un microfono a forma di rivoltella e passa troppo tempo a costruire coreografie con i suoi scagnozzi. Costruisce i New Power Generation come una band di gangster del ghetto. I lavori firmati come NPG, (“Gold Nigger” e “The Exodus”), sono densi di suoni e di musica. Il secondo è un’ottima galleria di canzoni, ma lo chiudono ancora di più nel suo eremo. Non si fa più chiamare Prince, è The Artist, TAFKAP, e pure Tora Tora. E tutto questo, ma non più Prince.

Mentre la battaglia con la Warner si fa sempre più dura, ormai il pubblico non lo segue più. Il pubblico è confuso: egli dovrà chiedere sempre l’autorizzazione alla major per comparire su altre etichette. Cambiare nome non sarà sufficiente. In questa disperazione generale, gioca sempre più la parte dell’incompreso in guerra con tutti: si scriverà la parola “slave” (schiavo) sulla guancia, ad indicare come la sua arte non possa essere veramente libera dalle regole delle case discografiche. Ha un sussulto, è vero, con “The Most Beautiful Girl in The World” dove ritrova le vette delle classifiche, grazie anche ad un video dove, forse per primo nel lontano 1994, prevede un presidente degli Stati Uniti nero e donna. Ma il brano è ripercorso da una melodia classica, peraltro bellissima, che ne ricorda mille altre sue. I duri e puri princiani non potranno ancora dire: Prince è tornato.

Arriva “The Rainbow Children”: Prince si chiude in studio da solo con il batterista nero John Blackwell, il suo migliore collaboratore di sempre, e riparte da zero. Riparte dal jazz. Ripulisce il suo stile e costruisce le canzoni (quasi) senza l’ausilio del computer: senza quei maledetti copia ed incolla di Emancipation. “The Rainbow Children” sarà il suo periodo in analisi da uno psicologo. Un punto fondamentale per tutta la sua discografia. Il jazz, padre di tutta la musica moderna, gli permetterà di ricostruire le sue più dense armonie (The Work pt.1), gli arrangiamenti più semplici (1+1+1 is 3) e così di riguadagnare l’attenzione degli esperti, anche grazie al sincero “She love me for me”. Un piccolo brano ed una melodia semplice, ma che si guadagna il titolo di eterna come quelle scritte con Wendy e Lisa. Il brano verrà distribuito anche in internet grazie all’illegale Napster.

Nel 2004, dicevo, Prince rinvigorito da un tour mondiale che l’aveva riportato dopo anni in Italia, ritrova la retta via. Sfodera, come detto, un look afro per “Musicology”, ma si fa subito notare per chiedere a Wendy di suonare con lui una dolcissima Reflection dal vivo. In concerto riporta in vita, dopo avere dichiarato per anni di volerne più sapere, quasi tutto Purple Rain. Tutto il resto è dimenticato si dona alla causa del mainstream. Del triplo “Emancipation” non v’è quasi traccia, “Come” è sparito senza fare danni, “Gold” sembra di un secolo prima. “The Truth” trova poco spazio.

Nel 2004 Prince è tornato. Non è più solo sé stesso, è anche ciò che il pubblico cerca in lui.

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Quanto è nero Prince

In questi giorni gira l’america.

La sua creatività e l’energia. Le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Prince è un esempio di tutto questo: creatività, energia, contraddizioni e paradossi. E forse, il padre di tutti questi incroci è la sua razza (“nello spazio sono un umano” canta in Race).

Figlio di neri, per lungo tempo si è falsamente dichiarato di origine italiana; nato e cresciuto nel nord degli Stati Uniti, ha abbracciato precocemente l’amore per l’incoerenza. Voce, movenze e abiti femminili per cogliere l’attenzione dell’universo femminile. Esposizione totale della sua vita privata nelle canzoni (“facciamo un bambino” chiede in una canzone a Mayte) e firewall potentissimi a difesa della sua privacy, con richieste di assoluta riservatezza, con rischio di penali, per chi lavora(va) con lui.

Lui parla solo attraverso la musica.

Le band che lo accompagnano hanno sempre trovato nel lato estetico una forte componente di contraddizioni. La batterista donna e la tastierista bianca, in un mondo dominato dagli uomini. Il chitarrista nero ed il tastierista bianco, in una band capitanata da un nero. Quando si tratta poi di riunire tutto ciò, la musica riuscirà ad essere la degna figlia di tanta mescolanza.

Per gli anni ottanta, la sua musica sarà “una cosa mai sentita prima” e qualcosa “di già sentito”.

In tutta la sua carriera mette in risalto e poi nasconde il suo lato più nero. Sia esteticamente, penso al look di Musicology, così ampiamente afro, ma anche musicalmente con i riferimenti al rock più bianco che c’è, quello inglese. Ma se, da una parte, la musica nera di Prince è come un figlio naturale, ma più nascosto per la gente. La musica bianca di Prince è il figlio più amato dal pubblico: viene rivista dal background di Prince e trova una connotazione tutta nuova. E, per come vedo io Prince, lo descrive maggiormente.

E’ proprio questo mix di colori, di contraddizioni, di porno e di sacro, di parolacce e di crociate della torre di guardia, che è utile a Prince per cancellare ogni etichetta che gli si voglia appiccicare. Il suo obiettivo è tutto lì.

I giornalisti ci cadono in pieno.

Penso a Prince e penso ad un musicista di alto livello. Non penso a lui come un musicista nero o rappresentante della musica black. Non penso a De Niro come un attore italo-americano, penso a lui come un grande attore. De Niro è il cinema. Prince è la musica, non importa che sia bianca o nera.

E’ semplicemente bella musica.