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Prince is back

Nel 2004, Prince riprende la retta via. Sono passati 20 anni giusti da “Purple Rain”, ma anche 10 anni da Gold. In quei 10 anni tra i due grandi successi, uno di color viola, l’altro oro, Prince aveva conquistato il mondo vendendo più di 10 milioni di dischi con il primo, successo mai più conseguito, e aveva costruito quello che era il lavoro artisticamente più completo: “Sign O’ the Times” (anche se secondo me non il migliore). Mantiene la stessa ottima vena compositiva in “Lovesexy”, ma poi compie giravolte su sé stesso e sulla sua musica, ottenendo risultati altalenanti, peraltro sempre molto sopra la media dei suoi contemporanei. In tutto questo tempo infila, però, una serie di apparizioni dal vivo che entreranno nella leggenda, fino ad esplodere nel concerto di “Lovesexy” dove mostra sé stesso: tutto il suo passato ed il suo presente, con un po’ di futuro.

Fino all’inizio degli anni novanta Prince sembra indistruttibile. Ogni cosa che tocca diventa oro. Little Steven scriverà ironicamente nelle didascalie del libro (veramente) fotografico di Guido Harari: “odio Prince: ogni canzone che fa diventa un successo”. L’aura di Prince la si sente ancora tra il pubblico, la musica ed i musicisti. Il profumo di violette si diffonde nell’aria solo a sentire un ritmo funky in pizzeria. Dopo l’altalenante “Graffiti Bridge”, Prince ritorna ispirato; con i New Power Generation, una band ora finalmente più nera che altro, l’unico bianco è Tommy Barbarella. Sfodera “Diamonds & Pearls” e “Love Symbol”. Ad ogni uscita, però, i critici faranno la gara per ritrovare quel Prince cattivo, irritante, ma esplosivo in ogni nota. Prince, secondo loro, non lo è più. Ma non era una band nera? Prince si è ripulito e cerca il facile successo.

Prince continua a circondarsi di ottimi musicisti, che, però, alla prova della composizione lasciano il tempo che trovano. Gli arrangiamenti sembrano cercare la confusione (“Daddy Pop” o “My Name Is Prince”), più che la semplicità di una volta (“When Doves Cry”). A dirla tutta, le canzoni che lui scrive (forse) da solo hanno ancora un’energia inesauribile e colpiscono nel segno come un tempo (“The Continental” o “Damn U”). Ma quelle che nascono dal gruppo non possiedono nulla dell’illuminazione eterna dei Revolution. Wendy & Lisa lo ispiravano molto di più di Levi Seacer Jr. Dr.Funk è più fantasioso di Rosie Gaines.

Prince, forse, ha la testa da altre parti. I pessimi rapporti con la Warner peggiorano quando ne diventa vice-presidente. L’alba della battaglia non la si vede mai. Non mantiene le promesse che aveva fatto al suo pubblico. Non ha più tempo e voglia solo per la musica. Deve delegare ad altri.

A parte lo zoccolo di supporter che lo seguono ad occhi chiusi, Prince ne perde molti anche per i suoi nuovi atteggiamenti da supereroe. Non è più piccolo ed indifeso ad urlare la sua voglia di essere posseduto sdraiato sul palco allungando le mani verso le sottane delle fan; ora va in giro armato di un microfono a forma di rivoltella e passa troppo tempo a costruire coreografie con i suoi scagnozzi. Costruisce i New Power Generation come una band di gangster del ghetto. I lavori firmati come NPG, (“Gold Nigger” e “The Exodus”), sono densi di suoni e di musica. Il secondo è un’ottima galleria di canzoni, ma lo chiudono ancora di più nel suo eremo. Non si fa più chiamare Prince, è The Artist, TAFKAP, e pure Tora Tora. E tutto questo, ma non più Prince.

Mentre la battaglia con la Warner si fa sempre più dura, ormai il pubblico non lo segue più. Il pubblico è confuso: egli dovrà chiedere sempre l’autorizzazione alla major per comparire su altre etichette. Cambiare nome non sarà sufficiente. In questa disperazione generale, gioca sempre più la parte dell’incompreso in guerra con tutti: si scriverà la parola “slave” (schiavo) sulla guancia, ad indicare come la sua arte non possa essere veramente libera dalle regole delle case discografiche. Ha un sussulto, è vero, con “The Most Beautiful Girl in The World” dove ritrova le vette delle classifiche, grazie anche ad un video dove, forse per primo nel lontano 1994, prevede un presidente degli Stati Uniti nero e donna. Ma il brano è ripercorso da una melodia classica, peraltro bellissima, che ne ricorda mille altre sue. I duri e puri princiani non potranno ancora dire: Prince è tornato.

Arriva “The Rainbow Children”: Prince si chiude in studio da solo con il batterista nero John Blackwell, il suo migliore collaboratore di sempre, e riparte da zero. Riparte dal jazz. Ripulisce il suo stile e costruisce le canzoni (quasi) senza l’ausilio del computer: senza quei maledetti copia ed incolla di Emancipation. “The Rainbow Children” sarà il suo periodo in analisi da uno psicologo. Un punto fondamentale per tutta la sua discografia. Il jazz, padre di tutta la musica moderna, gli permetterà di ricostruire le sue più dense armonie (The Work pt.1), gli arrangiamenti più semplici (1+1+1 is 3) e così di riguadagnare l’attenzione degli esperti, anche grazie al sincero “She love me for me”. Un piccolo brano ed una melodia semplice, ma che si guadagna il titolo di eterna come quelle scritte con Wendy e Lisa. Il brano verrà distribuito anche in internet grazie all’illegale Napster.

Nel 2004, dicevo, Prince rinvigorito da un tour mondiale che l’aveva riportato dopo anni in Italia, ritrova la retta via. Sfodera, come detto, un look afro per “Musicology”, ma si fa subito notare per chiedere a Wendy di suonare con lui una dolcissima Reflection dal vivo. In concerto riporta in vita, dopo avere dichiarato per anni di volerne più sapere, quasi tutto Purple Rain. Tutto il resto è dimenticato si dona alla causa del mainstream. Del triplo “Emancipation” non v’è quasi traccia, “Come” è sparito senza fare danni, “Gold” sembra di un secolo prima. “The Truth” trova poco spazio.

Nel 2004 Prince è tornato. Non è più solo sé stesso, è anche ciò che il pubblico cerca in lui.

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