blog · Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

Ultima Canzone

Un estratto dal mio nuovo libro: “Manca sempre uno per fare Trentuno (Ventuno)”

Se siete come me vi sarà capitato di confrontare la vostra vita con quella di Prince. Provo con un esempio. Nato nel 1958, Prince pubblicò il suo disco più innovativo nel 1982, a 24 anni. Il tour che lo portava in giro avveniva mentre scopriva le sonorità new age. In quel periodo intorno a Prince giravano una moltitudine di ragazze, due tipo Jill Jones e Vanity.

Di sicuro tu sembri il mio maestro, dice Vanity.

Sono stato chiaro?

A 24 anni, anzi a 23 e qualche mese, iniziavo a lavorare come programmatore in una piccola società sgarrupata della Bovisa. Negli anni novanta, la Bovisa era conosciuta per due cose. Era il quartiere di Milano che aveva dato i natali a Osvaldo Bagnoli, allenatore campione d’Italia con il Verona, e tra le strade ospitava i laboratori del Teatro alla Scala. In Bovisa (o alla Bovisa, mai capito come si dicesse) c’ero finito perché Marco F., amico interista di San Donato, già ci lavorava e mi aveva detto che cercavano un programmatore. Io, che mi agitavo con i computer fin dall’età di 13 anni, non persi tempo e gli mandai il curriculum pieno zeppo di linguaggi di programmazione. Fortran, Basic, Cobol e Rpg su As 400. Pensavo che più cose scrivevi di saper fare, più avevi probabilità di essere chiamato a lavorare. Non era e non è proprio così. Più cose sai fare, più i colleghi ti danno cose da fare, così loro hanno tempo per farsi i cavoli loro. Così capitò anche in Bovisa, dove Marco F. non mi raccomandò, anzi prima che potessi andare a fare il colloquio, Marco F. aveva già dato le dimissioni e finì a lavorare per gli ex soci e concorrenti dei miei futuri capi. La morale fu che mentre Prince a 24 anni pubblicava 1999 e inseguiva una piccola Corvette rossa (e non solo quella), io inseguivo la 92 in piazzale Caiazzo per scendere in Piazza Bausan. Feci tre mesi con il contratto di formazione e dall’aprile 1994 iniziai la mia professione. Il primo maggio, Ayrton Senna moriva a Imola. Che di Formula Uno non mi è mai interessato molto, ma fu un avvenimento di quei giorni.

Amedeo Fernandino di Savoia era il terzo genito di Vittorio Emanuele, nacque nel 1845 e, dopo le insistenze del Generale Prim – capo dei rivoltosi spagnoli – e l’autorizzazione del padre, divenne il Re della Spagna. Aveva circa 25 anni quando partì da La Spezia il 26 dicembre 1870. Quando sbarcò sul suolo spagnolo lo raggiunse la notizia della morte del Generale Prim, suo sponsor. Rimase Re di Spagna fino a febbraio 1873, dopodiché in Spagna tornò la Repubblica e lui ripartì per l’Italia.

Mi piaceva programmare. Era il mio luogo sicuro. Non dovevo relazionarmi con nessuno. Nessuno mi aveva mai raccontato e spiegato come dovevo vivere in mezzo alle persone, ma avevo imparato da solo la lingua dei computer. Uno o zero. Vero o falso. Nessuna sfumatura di grigio. Quando qualcuno si avvicinava, con qualsiasi intento, lo allontanavo con quella dose di ironia e cinismo, il primo ereditato da mio padre e il secondo da mia madre, e che avevo già visto impiantato nel chip di mio brother.

Non sono mai stato un ribelle; non avevo nessuno da cui ribellarmi. Ho sempre vissuto a margine di tutto e tutti. Vivevo in una sorta di silenziosa apparenza che mi era stata insegnata per non disturbare lo status quo. Ero in un deserto di ispirazioni e cercavo l’acqua da cui capire che strada prendere, ma le coppie erano già state fatte e nessuno mi pescava. Mi è capitato altre volte nella mia vita. Rimango da solo, perché le altre non tradiscono i propri compagni per l’ultimo arrivato. Ed è un circolo vizioso; tiri fuori la tanto agognata resilienza, che sarà la tua compagna fino alla fine dei tuoi giorni. Ti permetterà di sopravvivere, ma mai di vivere in pieno i tuoi giorni.

Iniziai a lavorare con Marco C.; Marco era alla mano, simpatico e burlone. Fatturava, fatturava e fatturava. Dava da mangiare ad almeno 10 famiglie con il suo stile tra Pozzetto e il Berlusca. E trascinava con le sue spalle tutta la banda. Grosso era grosso, ma aveva fatto solo le medie. Aveva iniziato a lavorare subito e le aveva provate tutte. Era nato programmatore e – un pezzetto al giorno – un venditore. Il mercato dell’informatica si era spostato dall’hardware al software e lui (con altri soci e amici) si era comprato la società per cui lavorava. Quando faceva i programmi non trascorreva un minuto per fare l’analisi dei requisiti dell’utente. Lui era i requisiti dell’utente. Con Marco mi trovavo bene; lui era il commerciale e io il programmatore. Io costruivo i programmi che lui presentava al cliente. Almeno fino a quel giorno quando, senza avvertire noi poveri manovali, le grandi menti laureate della società decisero che si cambiava tutto; sarebbe arrivato un nuovo responsabile dell’area programmazione. Avevo fatto l’errore di confidare a qualcuno che mi trovavo bene in quella società, perché avevo tempo per fare lavori di qualità. In fin dei conti l’avevo detto solo per far contento Marco, ma venni punito. Iniziai a lavorare con un certo Ciccio (nome di fantasia). Un violento (a parole). I miei colleghi festeggiarono quando videro che Ciccio aveva trovato la sua vittima. Pensavano di averla fatta franca. Tanto Marco era un capo affabile e generoso, quanto Ciccio era un capo irritabile ed egoista. Tanto Marco era intelligente, quanto Ciccio era uno stupidotto, facilmente aggirabile. I clienti di Marco erano difficili da conquistare, perché Marco sapeva farci, sempre. Non perdeva un colpo. Era disponibile, attento e concentrato sulla soddisfazione dei clienti (un antesignano della metodologia Agile), mentre Ciccio era egocentrico. Girava per gli uffici dei clienti con la sola idea di mostrare quanto fosse figo e avesse una risposta per tutto. Aveva un’auto sportiva americana, di colore verde acceso. Forse una Chevrolet. I ricambi di questa auto in Italia non c’erano. Ogni volta doveva farseli mandare dall’estero. Senza internet o il mercato unico europeo di oggi, trascorreva giorni in ufficio a fare ‘ste cose. Alla fine, acquistava ricambi falsi dimostrando di non avere il fegato per mantenere uno stile di vita che non gli apparteneva. Nel frattempo io diventavo il riferimento dei suoi clienti; i clienti non potevano credere ai loro occhi: avevano davanti una persona normale, io, dopo che per anni erano stati seguiti da un fantoccio come Ciccio. Facevo tutto da solo. Grandi telefonate e molti viaggi presso i clienti. La piccola azienda, allora, non ci dava un portatile per lavorare. Tutti i capi, tranne Marco a cui non servivano protesi tecniche per fatturare, fatturare e fatturare, avevano il computer portatile. E pure Ciccio. Il portatile era già un piccolo status symbol. Così come il cellulare di prima generazione, che veniva puntualmente clonato. Ciccio aveva il set completo: computer portatile, auto sportiva e cellulare. Aveva anche una fidanzata (che poi l’avrebbe tradito).

A Ciccio non mancava nulla, ma alla vita non interessa cosa hai, interessa chi sei. Come quel giorno quando dovevamo andare da un cliente in Via Torino. Una piccola società di tessuti, con la fabbrica in provincia di Milano. Per andare da questo cliente, che era in centro, bastava prendere un tram che partiva dalla Bovisa e che fermava dietro a Piazza Duomo. Poi due passi ed eravamo arrivati. Quasi da capolinea a capolinea. Saliti sul tram, non avevo nulla da fare, ma parlare era impossibile, perché Ciccio faceva solo monologhi. Sempre in competizione; se tu avevi scalato l’Everest, lui aveva scalato una montagna più alta e prima di te. Quel giorno, per fortuna, doveva lavorare al computer. Tirò fuori il portatile, credo un Texas Instrument (che divenne Acer nel 1998), e lo accese, mettendo la mano sopra le casse, perché sapeva che il suono di accensione di Windows di 95 (il jingle di Brian Eno registrato con un Mac) avrebbe svegliato l’intero tram. Lui lo configurava sempre al massimo del volume, per non passare inosservato. Mentre mi godevo questa scena come l’ennesima sceneggiata di un personaggio curioso – cosa avesse mai da fare in quel viaggio di 15 minuti che ci aspettava lo sapeva solo lui – il tempo passava e il tram si avvicinava a Piazza Duomo; il pc divenne operativo solo quando arrivò il momento di scendere. Accenderlo non era servito a niente, tranne mostrare che lo possedeva.

Un altro giorno Ciccio raccontò come l’auto rappresentasse per l’uomo un prolungamento del pene, sottolineando il fatto che lui guidasse una macchina sportiva americana – mentre io gli rispondevo ad alta voce che per lo stesso motivo prendevo tutti i giorni l’autobus, la 92. I miei colleghi ci ascoltavano e ascoltavano i miei racconti, accorgendosi che gli equilibri tra me e Ciccio erano cambiati. Lui non era più l’egocentrico e unico proprietario della verità assoluta, perché c’era qualcuno che aveva capito come trattarlo e quello ero io. In quel momento diventai un pericoloso pretendente alle posizioni di potere della piccola società e venni preso di mira. Battute del tipo: chi va con lo zoppo, impara a zoppicare avevano come unico obiettivo abbassare le mie pretese. Pretese che non c’erano, perché io volevo solo lavorare nella musica. Scrivere.

Mentre Prince stava lottando la sua battaglia contro la Warner, io rincorrevo in una sorta apnea questi umanoidi. Mi insegnavano molto, per carità, ma la paga era ridotta. Avevo iniziato a un milione e tre (circa 1.070 euro oggi secondo l’Istat), ma alla fine della mia esperienza avevo raggiunto due milioni e mezzo (circa 1.700 euro oggi, sempre secondo l’Istat). Chi inizia a lavorare oggi provi a fare il confronto e poi mi dica se le cose sono cambiate. Con queste cifre non andavo da nessuna parte. Non potevo comprare casa a Milano. A quel tempo il destinatario degli sforzi non ero io. Potevo impiccarmi con un affitto, ma non avevo quel coraggio: se paghi un affitto tanto vale che fai il mutuo, mi dicevano tutti. Qui bisogna vincere al Totocalcio disse un giorno mio papà. Intanto, io continuavo a scrivere musica.

Ciò che mi ha sempre salvato dalla depressione che ogni tanto sbucava nella quotidianità era la mia voglia di imparare. Potrei chiamarla curiosità. Quella cosa che ti permette di entrare nel circolo virtuoso riconosciuto anche da Skande: studiare quotidianamente, applicare le proprie idee, misurarne l’efficacia per ottimizzare la comunicazione successiva, incrementare un seguito che ti apprezzi e, infine, sviluppare una sensibilità nei confronti delle esigenze del pubblico e dell’evoluzione degli strumenti. Nel lavoro ero così, sempre attento a imparare qualcosa. Sia che fosse uno soft-skill o un tecnicismo. Non lo sapevo ancora, ma già applicavo il Ciclo di Deming. Si tratta di uno strumento per il miglioramento continuo formato dalle fasi Plan (pianifica) Do (fai) Check (verifica) Act (agisci). Guardavo gli altri, prendevo spunto, controllavo come finivano le cose e (se necessario) cambiavo qualcosa. Il mio obiettivo era di non creare casini. Fare in maniera che le cose continuassero lisce, così avevo anche il tempo per farmi dei sani cavoli miei.

La musica sembrava la mia sola vita reale, ma la musica rischia di essere una vita parallela. Si tratta di una realtà che potrebbe non avere punti in comune con la quotidianità. Quando si va a un concerto si entra in una dimensione creata dal musicista. Chi fa musica deve per forza sottrarsi dai doveri di qualsiasi persona. Eppure deve sapere anche come tirare avanti la baracca. Qui sta la bravura dei manager. O la bravura di chi si mette in ballo da solo, come avrei voluto fare. Ispirandomi a Prince e stando dentro queste dinamiche. Prince – grazie al successo e a un talento fuori dal comune – costruì in mattoni un luogo dedicato a questo mondo parallelo e che aumentava la realtà che lo circondava. Paisley Park è tutto questo, il sogno e la realtà. Io avrei voluto costruire la mia piccola Paisley Park, anche solo nel mio cuore. La mia cameretta divenne presto il mio studio, il Palatium Studio. Il nome Palatium mi rimase in testa quando studiai la vita di Carlo Magno.

Carlo Magno stabilì il suo il centro del potere non a Roma, bensì ad Aquisgrana, in territorio germanico. (…). L’intero complesso venne denominato da Carlomagno il suo “Palatium” esattamente come il colle a Roma, sede dell’imperatore romano. 

Scrivevo i crediti dei miei dischi fantasma sui numerosi bloc notes che mi circondavano. In uno stato di semi-coscienza provavo anche a gettare le basi dei miei testi. Spesso onirici o fantastici, raccontavano qualcosa che non c’era. Come questo brano intitolato Ultima Canzone. Un brano che ho scritto (testo e musica) nel 1998 e che un paio di anni fa ho mandato al mio amico Mark Balma. Lui l’ha rivisto così.

Il lavoro era in un vicolo cieco. Per quanto mi piacesse programmare, l’inutilità delle cose che facevamo era palese: gli anni passano e un giorno tira l’altro, ti trovi nella pigrizia di un lavoro poco redditizio – cantavo. D’estate non stavo più a casa e partii per il terzo viaggio negli USA: le scrivi cartoline da ogni posto che incontri e cominciano a scricchiolare anche i migliori sentimenti – sempre dal testo della canzone. Di ritorno dagli states venni accolto da una novità: ora che non ci sono più sguardi per il mio, ti racconto la storia che mi sono meritato io – infine scrissi e cantai.

Questa canzone di più di 20 anni fa ha avuto, come le altre mie cose, una strana traiettoria. L’ho tenuta in archivio per così tanto tempo, ma quando ho deciso che avrei chiesto a Mark Balma di fare musica con me – un passo non semplice – è stato uno dei primi brani che ho pensato di mandargli. Mark è genuino, schietto e istintivo. Fa il pittore e il musicista. Abita in Minnesota. Di origini italiane, piemontesi, l’abbiamo conosciuto nel 2016, quando decidemmo di acquistare una sua stampa con un ritratto di Prince. Mark è dotato di un talento artistico enorme, l’unica persona che posso definire con la parola Artista, per come vive e vede la vita. Come si dice: quando si è del mestiere si riconoscono i talenti altrui. E lui è così. Quando vede qualcosa nell’aria o sente qualcosa nella musica allora si muove. Con un tocco magistrale, lavora carpendo le idee che girano e rielaborandole secondo il suo filtro. Ecco, lavorare con Mark è bello, perché quello che fa è il risultato della sua esperienza. Lavori con lui, ma sei in compagnia di Pietro Annigoni, Leonardo da Vinci e Bob Dylan. Le sue passione sono ciò che l’hanno formato.

Io e Mark (Marco) Balma nel suo vecchio studio. Uno dei giorni più belli della mia vita. Foto by Giovanna.

Quando ha finito di lavorare a questa canzone era mattina: vivendo nel mid-west, per lui era passata la mezzanotte; me l’ha mandata mentre uscivo per andare a lavorare. Pendolando come capita a me, con gli strumenti offerti da 3nord, non potevo ascoltare il risultato del suo arrangiamento. E poi ero nervoso. Per la prima volta, a quasi 50 anni, c’era qualcuno che trattava seriamente la mia musica. Mi sembrava di essere dentro a un sogno. Non volevo ascoltare il brano per paura che questo sogno finisse. Come quando ero uno sbarbato e non parlavo con la ragazza che mi piaceva, perché avevo paura che mi rimbalzasse. Sì, va bene, quando sei più largo che alto, stempiato e con i denti storti, ci sono buone probabilità che ti rimbalzino, ma questo era il mio lato sognatore, che faceva fatica a uscire. Quella mattina neppure pensai di mandargli un messaggio per ringraziarlo. Tant’è che verso mezzogiorno – ancora notte da loro – ci scrisse la sua compagna per dirci che Mark era irrequieto, perché voleva sapere com’era andato il suo contributo. Era come con quegli animali che ci fanno paura, ma che poi scopri più impauriti di noi. E così, se io ero spaventato dal poter lavorare con un vero musicista e artista che stava trattando la mia musica con i guanti bianchi, lui era preoccupato di capire come avrei risposto alle sue idee. Come si sente dal brano, il suo lavoro fu splendido, sia perché con gusto aveva saputo riprendere la mia melodia (e trasformarla in un brano d’atmosfera, mentre io, chissà perché, pensavo a qualcosa di più rumoroso e rock), sia perché ne aveva curato la produzione. Oltre ad averci suonato dal vivo batteria, basso e chitarra, aveva mixato il brano e l’aveva passato a dei professionisti del mastering di Los Angeles. A conti fatti, quando ho saputo queste cose ho realizzato che il lavoro era diventato non solo un riconoscimento delle mie capacità come autore (e perfino come cantante), ma pure un brano che era stato prodotto. Mark Balma era il mio Rick Rubin.

Qualche tempo dopo ho fatto ascoltare in giro il brano, perché il sogno continuava e, malgrado le realtà quotidiane che mi stavano inseguendo, non volevo farlo finire. Ma un giorno è successa una cosa curiosa che un po’ mi ha spento l’entusiasmo. In questo tour virtuale che stavo facendo fare del brano prodotto da Mark, ho girato il link di soundcloud a un amico, semi-autore di libri, una sorta di collega a cui piace inventare delle cose. Quando ha sentito il brano mi ha fatto fare un salto nel passato. Un salto a quando ero sbarbato e facevo ascoltare i miei brani (oggi si direbbe inediti) in famiglia e agli amici. Quando qualcosa era indovinata la prima reazione era: l’hai rifatta bene. Il sottinteso era: tu non sei capace di fare qualcosa di bello. Se qualcosa che hai prodotto è bello da ascoltare allora significa che l’hai copiato. Senza entrare nei discorsi legati all’ispirazione e alla traspirazione, venire giudicato bravo a fare qualcosa solo quando la si rifà all’inizio è piacevole, ma ben presto si rivela una tomba. Lo scambio di battute con questo amico fu simile:

– ho ascoltato il brano
– grazie, cosa ne pensi?
– hai scritto tu le parole?
– sì
sulla musica di Balma…
– no, la musica è mia. Il brano l’ho scritto tutto io, testo e musica, negli anni 90…

Silenzio di ghiaccio, con quella brutta bestia che è il dubbio di non essere in grado di fare qualcosa del genere, che male mi fa. Se potessi tornare da me stesso a 20 anni gli direi: vai avanti per la tua strada. Si vive una volta sola. Guarda queste persone che hanno dedicato la vita al nulla, invece tu hai la possibilità di fare qualcosa di bello. Fallo. Insisti, non fermarti alla prima delusione. Non rimanere scottato da qualche gelosia.

Un giorno sarebbe arrivato il mio Mark Balma. Tutti hanno un Mark Balma nella loro vita.

Questo dialogo infelice non sarebbe mai successo con Mark e la sua compagna Paula. Quando si è negli Stati Uniti d’America è contagioso fare dei complimenti agli altri. Qualsiasi operazione che preveda l’iniziativa personale è apprezzata automaticamente. Riceve un riconoscimento di default. Invece in Italia la prima cosa da fare è bloccare gli entusiasmi. Non ne parliamo se poi cerchi di trovare una spalla dai tuoi genitori, che magari si ritengono in competizione con te e non vogliono che tu li superi dei loro presunti successi.

#tbt

Prince a Milano il 31 ottobre 2002

Non è giovedì, ma un breve flashback di quello che è stato il mio blog Trentuno Ventuno (formerly known as TreUnoDueUno) male non farà. 😃🎵

Era dall’estate del 1990 (ben dodici anni !) che Prince non veniva in Italia a suonare e al suo ritorno c’ero anch’io. Come mai per così tanto tempo un suo tour non aveva toccato le nostre città? Strascichi legali: per problemi con l’agente della tournee del novanta era scappato dall’Italia senza finire alcune date e da quel momento non era più rientrato. In tutto questo periodo tante cose sono cambiate nella sua musica e nel suo mondo: il litigio, il divorzio con la Warner e la conseguente uscita dal circuito dei media, il cambio di nome e poi il passaggio al simbolo (qualcuno si ricorda di Tafkap? The Artist formerly known as Prince), il matrimonio con Mayte e il difficile momento del figlio, il divorzio da Mayte e il matrimonio con Manuela Testolini. E in tutto questo aggiungiamo che è diventato Testimone di Geova e vegetariano. E, come potete verificare nella pagina dedicata alla sua discografia, nel frattempo ha pubblicato una valanga di dischi: Diamonds and Pearls – The Love Symbol – The Hits – Come – The Gold Experience – Chaos and disorder – The Vault (tutti questi con la vecchia casa discografica) e The Beautiful Experience – Emancipation – New Power Soul – Crystal Ball (con the Truth e Kamasutra) – 1999 The New Master – Rave – The Rainbow Children – One nite alone. Alcuni acquistabili dal suo sito internet.

E, mentre sta per uscire il suo primo disco registrato dal vivo, lui arriva a Milano per l’unica data in Italia: avevamo lasciato una persona nel novanta e forse ne abbiamo trovato un’altra nel duemila e due.

Dico subito che quello di giovedì a Milano era il mio primo concerto di Prince, un concerto speciale perché visto come membro del suo club (www.npgmusicclub.com) e quindi da una posizione privilegiata.

Ecco un breve racconto di quella giornata.

Sono arrivato verso le 15.30 e fuori del palazzo si trovavano già un centinaio di persone, erano i membri, come me, del Npgmusicclub (NPGMC), eravamo tutti lì così presto perché nel nostro biglietto, oltre alla posizione riservata sotto il palco, era compresa la partecipazione ad un pre-show, dedicato solo a noi. Mi sono messo in coda e mi sono informato da due ragazze vicine se quella fosse la fila giusta e mi hanno suggerito di andare da un ragazzo a ritirare il mio numero; con stupore ho così potuto notare che era stato organizzato un coordinamento all’entrata, nato spontaneamente tra i fan italiani, risultato poi perfetto. I ragazzi stavano distribuendo dei numeri (stile supermercato) per organizzare la fila in modo civile. Mentre, oltre a noi, c’erano già quelli che con i biglietti “normali” che aspettavano davanti ai cancelli.

Piano, piano la fila ha cominciato ad entrare e dopo avere ritirato il “pass” plastificato ci siamo ritrovati nell’immediata vicinanza dell’ex-palatrussardi dove abbiamo passato gran parte del nostro tempo. E intanto scendeva la sera su Milano e con il buio arrivava anche il freddo. Alle 18 siamo entrati e ci siamo subito sistemati nella nostra area riservata, immediatamente sotto il palco, un posto davvero fortunato. Quelli che erano arrivati prima di me e che aspettavano davanti ai cancelli, senza essere membri del club, si sarebbero sistemati dietro di noi. Noi del NPGMC eravamo in un semicerchio transennato che delimitava la nostra zona da quella di tutto il resto della pubblico. Abbiamo visto tutto il concerto in piedi, ma senza essere pressati l’uno con l’altro. Abbiamo ballato tranquillamente, saltato e cantato.

Dopo pochi minuti dentro è arrivato Prince.

È salito sul palco e la band, cioè Npg – Renato Neto alle tastiere – Rhonda Smith al basso – John Blackwell alla batteria – Greg Boyer, Maceo Parker (storico sassofonista di James Brown) e Candy Dulfer (splendida sassofonista olandese) ai fiati e alle percussioni Sheila E., ha cominciato con lui una splendida Jam Session: il Santana Medley e dopo due chiacchiere con i membri del club, in una maniera veramente informale, come tra vecchi amici, Sheila E. ha preso il posto di Blackwell alla batteria e Prince ha imbracciato una chitarra basso ed hanno eseguito un’altra Jam.

Fra un brano e l’altro la prima cosa che ci ha detto è stato: “it’s too loud ?” (E’ troppo alto?) Le frasi scambiate con i ragazzi del club ci hanno mostrato un Prince a suo agio e onesto. Dopo un paio di “Bentornato in Italia” e “Italy loves you!” da parte del pubblico, Prince ha, molto naturalmente, mostrato una piccola parte delle sue preoccupazioni: “We’ll see if Italy loves me”. Non ho mai avuto dubbi che il suo concerto di Milano potesse avere qualche risvolto negativo o triste, ma quando siamo entrati, fuori non c’era la ressa che ho visto ad altri concerti. Eppure, il calore del pubblico durante il concerto lo sentivamo anche noi del club.

Ha presentato i membri della sua band e quando Maceo Parker è arrivato sul palco, con occhiali da lettura a metà del naso per vedere dove stava mettendo lo spartito, Prince l’ha visto e si è voltato verso di noi e, con un sorriso di intesa nei nostri confronti, ha detto: “Look at Maceo, isn’t he cool ?” (Guardate Maceo, non è forte?) Effettivamente questo sessantenne che ancora oggi suona funk e jazz con Prince e entra sul palco come se fosse un professore di musica ci ha fatto un bellissimo effetto. Prince ci ha poi confermato, purtroppo, che l’aftershow, spettacolo che generalmente si svolge qualche ora dopo il concerto normale e viene fatto in un locale della città, non era previsto, “le attrezzature devono partire per il prossimo concerto” è stata la sua risposta. Inoltre alcune coincidenze non hanno probabilmente aiutato lo svolgimento del aftershow: a Milano Prince avrebbe incontrato molti Vip (i Versace in testa) che sicuramente l’hanno invitato ai loro festini, e poi era Halloween, di discoteche libere per Prince non ce n’erano. E “last but not least”, a Milano Prince ha rivisto tre suoi vecchi musicisti che lavorano e vivono, quasi stabilmente, in Italia (Michael Bland, Tommy Barbarella e Sonny Thompson). Insomma quella sera non c’era proprio tempo per l’aftershow.

Ci ha chiesto più di una volta se dovevamo aprire le porte anche al resto delle persone e forse questo motivo più di altri, l’ha obbligato a fare solo due pezzi nel pre-show per una durata totale di circa 40 minuti. Poi abbiamo aspettato fino alle nove e un quarto quando è cominciato il concerto vero e proprio.

L’impressione che ho avuto era quella di incontrare un vecchio amico, che conoscevo bene e che aveva voglia di suonarmi un po’ di sue canzoni. Non avevo assolutamente davanti l’uomo che aveva venduto 15 milioni di copie di Purple Rain oppure quello che si scriveva “Slave” (Schiavo) sul viso quando era in piena lite con la Warner. No. Era un mio vecchio amico ed era un po’ che non lo vedevo.

Voi pensate che io sia il leader della band, in realtà non è così. La musica ci guida, noi suoniamo tutti nella stessa chiave, quella della musica. Un giorno il mondo capirà e si canterà tutti la stessa canzone.

Prince

Musicalmente il suo funk è piacevole, mai irritante, sempre melodico. La band segue alla lettera i suoi voleri, lui alza il volume, aumenta il passo e lo ferma (urlando “breakdown” nel microfono). Chiama i musicisti sul palco quando pensa sia il momento giusto e con molta improvvisazione. E’ stato piacevole vedere il concerto dall’area dedicata ai membri del club. Nessuno che ti spinge, nessuna ressa, eppure sei al massimo ad una decina di metri dal palco. Insomma l’idea del Npgmusicclub funziona.

Dopo il primo brano dove la sua chitarra comincia ad urlare. Lui dice: “Ciao Milano, il mio nome è Prince e stasera sarò il vostro deejay.” Ed ancora “Vera musica per la gente che ama la vera musica, a me non piacciono le radio”. Sul palco, e in tutto il palazzetto, comanda lui. Si canta e ci si muove quando lui lo decide.

Il momento migliore ?

Più di uno. Ho amato il funky prolungato di The Work Pt.1 o del successivo Jam, durante il quale ha chiamato uno di noi a ballare sul palco, con una semplice scusa: “are you a leader or a follower?” (sei una guida o un discepolo ?). Uno di quelli che urlava “follower” si è sentito rispondere da Prince: “follow me” (seguimi). Per tutto il tempo del brano funky, il “discepolo” ballava alla destra di Prince. Poi Candy Dulfer, su consiglio di Prince, è andata dal “ballerino discepolo” con il suo sax, e l’ha fatto muovere ancora di più. Ma non è stato l’unico del pubblico a salire sul palco con Prince e la band, un altro ragazzo e due ragazze si sono trovate sul palco e, in tutta verità, si muovevano discretamente bene. Poi Prince li ha chiamati al centro del palco e loro, dietro a lui, ripetevano le coreografie che lui faceva fino a quando li ha incoronati con “Ladies and gentlemen N’sync !”. E’ stato un fuori programma piacevole, in tutti i concerti che ho visto di altri musicisti, non mi era mai capitato di vedere un artista che chiamasse degli spettatori sul palco a ballare con lui, e per così tanto tempo, poi.

Prince parla anche del suo rapporto con i media, e parte la canzone Strange Relationship (Relazione Strana), tirata fuori da quel grande lavoro che è Sign o’ the times. La stessa Sign o’ the times, rifatta senza la batteria elettronica e il synth basso con cui nel 1987 era nata, basandosi sulla ritmica della batteria di John Blackwell e della chitarra elettrica di Prince, ha ritrovato nuova linfa in questo nuovo tour.

Bisogna sottolineare le capacità del batterista John Blackwell, non è da tutti i giorni vedere un persona che picchia sui tamburi come lui. Capace di colpire nello stesso momento i due piatti (ride e charleston) per tenere gli ottavi del ritmo. E picchiava sui tamburi con energia, tanto da inventare un passaggio in cui le mani si incrociavano per andare sui diversi piatti, la mano destra a sinistra e la sinistra a destra.

Come al solito, e da grande musicista qual è, Prince non ha paura di confrontarsi con brani di altri artisti. In questa tournee è stata la volta di un brano dei Led Zeppelin, Whole lotta love, ripreso con la sua chitarra sugli scudi. E in altri momenti il suo falsetto lasciava posto alla voce piena, questa sua caratteristica l’ha fatto diventare famoso in passato ed anche a Milano ce l’ha fatta sentire, la ricordo in Sometimes it snows in April, dove la scenografia prodotta dai fari ricostruiva una splendida nevicata su tutto il palco. Una grossa sorpresa all’interno della band era la presenza di Sheila E., direttamente dal periodo d’oro di Prince. Sheila E. a Milano faceva la sua bella presenza dietro le percussioni, ma ha avuto il piacere di suonare la batteria durante Purple Rain. Per poi prendere con sé un piatto della batteria e seguire il resto della band, ballando in giro per il palco, alla fine del concerto.

Man mano che passava il tempo e più si entrava nella sua dimensione, Prince si lasciava andare, le sue preoccupazioni sulla risposta del pubblico italiano (diecimila persone avevano intanto riempito l’ex-Palatrussardi) se n’erano andate. Come ho già detto, molte volte le frasi di Prince ci dicevano cosa fare. Si cantava rincorrendo una sua linea. E poi si cantava mentre lui cantava. Questo è Prince, ma questa è la musica in generale. E proprio di questo che ad un certo punto Prince ci ha parlato: “voi pensate che io sia il leader della band, in realtà non è così. La musica ci guida, noi suoniamo tutti nella stessa chiave, quella della musica. Un giorno il mondo capirà e si canterà tutti la stessa canzone.”

Gli ultimi lavori di Prince sono incentrati su riferimenti mistici ed influenze Jazz / fusion, quello di Milano è stato un concerto particolarmente influenzato da questo suo ultimo periodo, per il resto molti sono stati i vecchi Hit ripresi e rivisti. Indubbiamente ha voluto andare sul sicuro e ha funzionato. Dopo avere trascorso tutta la prima parte del concerto in un completo nero, la seconda parte (i bis), richiesti a gran voce da tutto il pubblico, l’ha fatta in un completo bianco, esempio seguito da alcuni componenti della band. Il concerto è stato ben forgiato, nessun caduta di stile oppure urla a sproposito. Tutti i musicisti, oltre a Prince naturalmente, sono di grande levatura e stile. Renato Neto, l’unico che suona le tastiere, ha una predilezione per l’elettronica. Dei fiati, della ritmica ho già parlato, rimane fuori solo la bassista: Rhonda Smith. Ideale compagna, secondo me, della musica di Prince, non disdegna fughe nel Jazz, partendo a suonare un contrabbasso elettrico gigantesco e usando poi un basso elettrico a cinque corde. Nel corso del concerto sono molte le influenze che si toccano e questo solo Prince riesce a farlo. C’è il momento di Jimi Hendrix e quello di Santana. Quello dei Led Zeppelin e di Joni Mitchel. Quello di James Brown e di Busta Rhymes. Ascoltare la musica di Prince, non è incontrare un solo artista, ma un musicista che fa suoi mille stili e poi li serve al pubblico alla sua maniera.

E poi c’è anche lui, con la Sua musica. Con Sometimes it snows in April, una triste, ma splendida ballata. Poi ci sono Take me with you e Pop Life che fanno aprire le anime. Poi The Ladder in pieno stile mistico (Tutti cercano la scala, tutti vogliono salvare l’anima. I passi che fai non sono una strada facile. Ma la ricompensa è grande, per quelli che vogliono andare. Tutti stanno cercando le risposte. Tutti vogliono sapere come la storia incominciò e come finirà. Cosa ce ne facciamo di metà storia, di metà di un sogno. Bisogna scalare tutti gli scalini.) E la canzone d’amore per eccellenza: The Beautiful Ones (The beautiful ones always seem to loose – Le belle sembra sempre di perderle.). In tutte queste canzoni, Prince, secondo me, non perde mai il filo della melodia. A volte le canzoni di Prince sono “difficili”, a volte anche strane. Ma mai senza melodia. Lui la nasconde, se vuole, bisogna sforzarsi per trovarla, ma c’è e la ricompensa è grande. Proprio come dice lui. Quando Prince si siede al piano è un Prince diverso da quello che suona la chitarra. Sono due lati della stessa persona. Prince al piano è intimo, è solitario: lo ascolti perché apri la porta e lui è in un angolo a suonare: per te. Prince alla chitarra e un Prince aperto, disponibile, che ti viene a cercare. Il finale con Days of Wild è stata, però, una chicca da soli intenditori, o da membri del club. Strana la vita di questo brano, al contrario di altre canzoni, Days of Wild è quasi completamente sconosciuto. Risaliva al tempo di Gold Experience (1994), ma non era stato pubblicato in quell’album. Presente solo nei bootleg dell’epoca, in versioni sia dal vivo che in studio, era stato pubblicato in Crystal Ball (disco venduto solo attraverso Internet), ma in una versione dal vivo. Nello scorso giugno, Prince ne ha pubblicato una nuova versione, sempre registrata dal vivo a Montreal, diversa dalla precedente. A Milano, quest’ultima versione è stata la canzone che ha chiuso il concerto. Days of Wild è un funky, con il cantato quasi rap e con frasi dal significato quasi incomprensibile. Per tutto il tempo della canzone Prince ha ballato su e giù per il palco, finendo anche a cantare sopra la fila di casse impilate ai lati del palco. In alcuni momenti si girava verso il backstage, fingendo di urlare a qualcuno che noi non volevamo lasciarlo andare via, mentre ci invitava a cantare “It ain’t over!” (Non è finito !)

Penultima data della tournee europea, Milano, forse, è rimasta nel cuore di Prince: al successivo concerto di Rotterdam, ultima data Prince avrebbe detto: I just came back from Milan, good people, kind hearts. (sono appena tornato da Milano, belle persone, cuori gentili).

Ora che è quasi passata una settimana e piano piano passeranno i mesi, cosa mi rimane del concerto?

Mi rimane un’unità di misura, ecco cosa ho e cosa lascia Prince. Cosa potrà fare qualsiasi altro musicista per superarlo?

Invitarmi a vedere il soundcheck? No grazie, già fatto da Prince.

Parlarmi prima del concerto? No grazie, già fatto da Prince.

Suonare la chitarra e le tastiere come quando Dio sa regalare ad un persona tanto talento? No grazie, già fatto da Prince.

Scrivere una ballata così piena di emozioni (Nothing compares 2 U) e poi dedicarla alla mia città? No grazie, già fatto da Prince. (Lui urlava: Nothing compares 2 U, Milano ! – Nessuno al tuo confronto, Milano ! Da in cima alle casse.)

Mostrarmi un batterista che suona tutti i piatti contemporaneamente? No grazie, già fatto da Prince.

Scrivere in un brano “It’s silly, no? when a rocket ship explodes and everybody still wants to fly” (No è stupido? Quando una navetta spaziale esplode, tutti vogliono volare.). No grazie, già fatto da Prince.

Portare una bassista sul palco con i pop corn e lui che ne prende un po’ da assaggiare prima del concerto? No grazie, già fatto da Prince.

Portare un sassofonista nero, con l’esperienza di quarant’anni di musica, che quando Prince gli chiede di suonare, scende sul palco, altrimenti rimane a fare il suo dovere con gli altri. Senza far pesare la sua esperienza e la sua età? No grazie, già fatto da Prince.

Dichiarare guerra a tutte le multinazionali del disco che ci fanno ascoltare e vedere sempre la stessa musica, fanno finte gare in televisione per portarci i nuovi cantanti, quando l’unica maniera in cui io credo, per diventare musicista, è partire dai garage, dire che odia le radio e che lui non è leader della band, ma che è la musica che comanda? No grazie, già fatto da Prince.

Ecco cos’è veramente Prince, un artisti con cui tutti devono, prima o poi, misurarsi. Prince ha dedicato la vita alla musica, come pochi altri prima di lui. Prince è la musica, se vuoi fare il musicista o amare la musica devi starlo ad ascoltare e capire.

Ecco cosa è Prince.

ps Ciò che è scritto qui, si basa sui miei ricordi e sull’immagini che ho impresse nella mia memoria, per questo motivo posso anche avere scritto delle stron**te (non lo escludo).