Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

Canta Tu

Tratto dal mio libro: “Manca sempre uno per fare Trentuno (Ventuno)”

Nel 1989 nella mia vita c’era solo la musica. C’era solo scrivere canzoni e suonarle. Avevo separato le mie strade dall’amico che voleva suonare con me e ne avevo trovato un altro che sembrava avere tutte le caratteristiche per diventare la mia principale ispirazione: Prince. Di Prince non m’interessavano molto le escursioni erotiche, le conquiste femminili o le immagini effeminate che trascinava con se. Mi interessava il suo modo di approcciare lo strumento musicale, quale che fosse. Avevo una sensazione: Prince aveva già capito tutto e poteva insegnarmelo.

Continua a leggere “Canta Tu”
Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

Questi sono i giorni del selvaggio

Tratto dal libro: “Manca sempre uno per fare Trentuno (Ventuno)”

Dopo il fallimento della sbornia pop dei primi anni 90, Prince aveva deciso di tornare a fare una musica più cruda. Più simile a un chissene. Con Diamonds and Pearls aveva inseguito i voleri degli avvocati della Warner e in termini di crana qualche risultato l’aveva ottenuto. Una maggiore presenza nei media con conseguente successo nelle classifiche. Nuovi collaboratori, forse più prolifici, ma meno di talento. Levi Seacer Jr sapeva il fatto suo quando venne assunto a tempo pieno come direttore musicale e autore, ma l’effetto globale sulla musica di Prince era sconcertante per quanto fosse diventata banale e ripetitiva. Solo quando Prince tornava a gestire le cose in prima persona si sentiva che le note uscivano dal suo apparato dirigente, altrimenti avevano qualcosa di stantio, di già sentito e (a volte) di inutile. Diamonds and Pearls era sempre con me. Avevo ottenuto un lettore cd portatile e non uscivo mai senza. Saltavo alcune tracce, Prince ti chiedo scusa, ma chi non l’ha mai fatto? Intanto leggevo la biografia A Pop Life e mi domandavo: «ma mentre Prince faceva Purple Rain, 1999 e Dirty Minds io dove ca**o ero?»

Con la musica di Prince c’era la netta sensazione che arrivasse direttamente dalla sua camera da letto senza finestre. O dal suo intestino. O dalla sua pancia. Non c’erano filtri. Paisley Park era diventato il luogo dove la creazione aveva inizio e grazie agli strumenti elettorali che si usavano all’epoca veniva trasportata a casa mia. Nella mia cameretta io lo ascoltavo e come in un messa di mezzanotte abbracciavo le cuffie sulle mie orecchie chiudevo gli occhi e ero lì con lui sul palco di Glam Slam. Guardami negli occhi Prince. Non avevo a disposizione la rete per capire queste cose. Oggi ho troppe informazioni e dimmi cosa è vero.

Negli anni 90, l’ho già raccontato?, passavo in rassegna tutti i negozi di cd di Milano per trovare remix ed edizioni speciali. Tre volte all’anno si materializzavano i crucchi a Novegro e ci vendevano le dosi della droga, cioè i bootleg dei concerti. Finì così che mi ritrovai tra le mani il Minneapolis 1994, il nastro l’ho consumato a forza di ascoltarlo sotto la doccia, fingendo di suonare l’assolo di chitarra. Il Prince che ne esce è quello incazzato che ha una gran voglia di chiarire le cose come stanno. Tanto simile a quello del Black Album. Io stesso (storia vera) mi ero imbattuto in un diversamente etero che, sentendomi citare l’introduzione di Lovesexy (“Rain is wet, sugar is sweet”), mi aveva riportato le parole delle Girls Bros: «Guarda che Prince è gay! me l’hanno detto Wendy e Lisa».

blog · Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

21 aprile 2021

“Quest’anno cosa t’inventerai su Prince?” mi chiede un amico.
Scocciato gli domando: “Perché usi quel verbo?”
“Quale verbo?” mi chiede l’amico un po’ stupito.
“Inventare. Inventerai hai detto. Non mi devo inventare nulla su Prince”, insisto io.
L’amico cerca di rimediare: “Inventare nel senso di creare”.
“Non c’è nulla da creare. Ciò che scrivo sul Trentuno Ventuno è già dentro di me. Non devo inventarmi nulla. Non devo creare nulla. Devo guardarmi dentro e trovare le parole che riflettano cosa provo”. Con questa frase immagino che la questione sia risolta.
Eppure l’amico insiste: “Va bene, va bene, riformulo la domanda: come ti senti per l’anniversario della morte?”
Se prima ero scocciato, ora mi sta stufando: “Come fai a parlare di anniversario? Non c’è nulla da celebrare”.

Ho a che fare con questa realtà: da cinque anni Prince non c’è più. Non ci sono più le sue armonie e le sue ritmiche. Non ci sono più le sue ballerine e i suoi musicisti. Le dissonanze e le assonanze. Non ci sono più le sue idee rivoluzionarie sul marketing. Rivoluzioni che ha quasi sempre fatto in anticipo sui tempi. Non ci sono più le sue opinioni paradossali e controverse. Non distribuisce più diamanti e perle. Mi manca la sua insulsa gestione degli affari. Mi infastidiscono queste bande di artisti da due soldi che dobbiamo sopportare; si sono autoeletti rappresentanti della sua eredità, mentre quando lui era in vita lo snobbavano.

Siamo qui a misurare i giorni, i mesi e gli anni, ma quei 5 anni che sono passati dall’ultimo concerto, dall’ultima biciclettata e dall’ultima uscita in pubblico non esistono. Il pubblico che si allontana dalla forza di gravità della massa artistica si troverà in un tempo accelerato. Il tempo è figlio dell’essere mortale e come tale non può essere confrontato con la natura divina di Prince. Prince non misurava il tempo e per lui esisteva solo una cosa: la verità. 

Qual è la mia verità?

Della morte di Prince ho fatto fatica a crederci. Mi sono dato diverse risposte. Per qualche tempo ho immagino che la morte di Prince fosse l’ennesima operazione discografica. Dopo la prima morte artistica del 1993, questa del 2016 poteva essere un grande esperimento di marketing. In un primo momento l’avrebbe reso immortale. Ma l’esperimento sarebbe stato interrotto, che ne so, tra 7 anni, con un grande rientro di un Prince redivivo. Sono un po’ blasfemo, lo so, ma questi pensieri sono dentro di me.

Poi ho pensato che se ne fosse andato senza dirci addio. E siamo rimasti con quell’ultima frase: aspettate qualche giorno per dire le vostre preghiere. Tra l’ironico e il triste. Un uomo che stava aspettando indifeso la propria fine. Oppure un artista che usava l’ennesimo trucco retorico per attrarre gli interessi del pubblico?

Eppure Prince non l’abbiamo mai visto in difesa. Era sempre all’attacco per uscire dal proprio guscio di povertà provinciale. Acquisirà sicurezza entrando nei Testimoni di Geova. Creatore di domande e in cerca di risposte, aveva abbracciato una religione che, per definizione, non aveva nulla di sbagliato. Gli vietava le trasfusioni di sangue e gli permetteva l’abuso di antidolorifici, risultando letale per il suo corpo magro e esile. Una contraddizione che lo rendeva più umano di quanto lui non pensasse di essere, sbagliando nel credere di avere un rapporto privilegiato con l’aldilà.

Non sto molto ad ascoltare le verità degli altri, perché mi sembrano costruite con la libertà di chi sa che Prince non potrà più contraddirli. Quell’accordo di riservatezza che faceva firmare ai suoi collaboratori sembrava a difesa della sua privacy. Era anche uno muro eretto per dissuadere questa schiera infinita di ciarlatani che usurpavano il suo nome. I ladri nel tempio sono tornati. Ora raccontano storie inverosimili e s’impossessano della sua firma.

Ci sono i presunti linotipisti che, forti delle loro rendite di posizione, insistono nel volere  rappresentare i diritti (senza i doveri) della discografia. In questa maniera credono di rispettare la memoria di Prince, ma riescono solo a creare disappunto, allontanando quel poco di buono che la coda lunga sa produrre. 

Nel mio piccolo, rimango sulla riva del fiume e attendo che passi la tempesta. Proviamo a produrre un poco di ossigeno con la fotosintesi clorofilliana, così come Prince ci aveva alimentato con la sua miscela di funk e rock. Non mi faccio più illusioni. Sono convinto che la musica di Prince sia un elemento della natura che ci circonda.

Guardo quel bellissimo gatto nero che miagola da sopra il tetto della casa di fronte. Si allunga e si stira mentre con ritmo sincopato controlla ogni singola mattonella. Non si perde un movimento dei volatili che saltano da un’antenna all’altra. È il padrone di quel microcosmo in orbita sopra le nostre teste. È tutt’uno con il palco che attraversa. Lo possiede, come nessun’altro. 

Questo era Prince. Un uomo che era diventato musica. Lo adoravamo per questo; non aveva altre ragioni di vivere se non la musica. Se non la sua chitarra e il suo piano. La sua batteria e il suo basso. I suoi musicisti e le sue ballerine. I suoi assoli e i suoi testi. Quando se n’è andato, per non tornare più, si è portato via tutta la magia. Una magia che aveva priorità sulla sua vita.

“Come stai?” mi domanda il solito amico.
“Sto bene, grazie”.
“Allora, perché non scrivi più sul Trentuno Ventuno?”
“Perché manca sempre uno per fare Trentuno Ventuno…”

blog · Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

Ultima Canzone

Un estratto dal mio nuovo libro: “Manca sempre uno per fare Trentuno (Ventuno)”

Se siete come me vi sarà capitato di confrontare la vostra vita con quella di Prince. Provo con un esempio. Nato nel 1958, Prince pubblicò il suo disco più innovativo nel 1982, a 24 anni. Il tour che lo portava in giro avveniva mentre scopriva le sonorità new age. In quel periodo intorno a Prince giravano una moltitudine di ragazze, due tipo Jill Jones e Vanity.

Di sicuro tu sembri il mio maestro, dice Vanity.

Sono stato chiaro?

A 24 anni, anzi a 23 e qualche mese, iniziavo a lavorare come programmatore in una piccola società sgarrupata della Bovisa. Negli anni novanta, la Bovisa era conosciuta per due cose. Era il quartiere di Milano che aveva dato i natali a Osvaldo Bagnoli, allenatore campione d’Italia con il Verona, e tra le strade ospitava i laboratori del Teatro alla Scala. In Bovisa (o alla Bovisa, mai capito come si dicesse) c’ero finito perché Marco F., amico interista di San Donato, già ci lavorava e mi aveva detto che cercavano un programmatore. Io, che mi agitavo con i computer fin dall’età di 13 anni, non persi tempo e gli mandai il curriculum pieno zeppo di linguaggi di programmazione. Fortran, Basic, Cobol e Rpg su As 400. Pensavo che più cose scrivevi di saper fare, più avevi probabilità di essere chiamato a lavorare. Non era e non è proprio così. Più cose sai fare, più i colleghi ti danno cose da fare, così loro hanno tempo per farsi i cavoli loro. Così capitò anche in Bovisa, dove Marco F. non mi raccomandò, anzi prima che potessi andare a fare il colloquio, Marco F. aveva già dato le dimissioni e finì a lavorare per gli ex soci e concorrenti dei miei futuri capi. La morale fu che mentre Prince a 24 anni pubblicava 1999 e inseguiva una piccola Corvette rossa (e non solo quella), io inseguivo la 92 in piazzale Caiazzo per scendere in Piazza Bausan. Feci tre mesi con il contratto di formazione e dall’aprile 1994 iniziai la mia professione. Il primo maggio, Ayrton Senna moriva a Imola. Che di Formula Uno non mi è mai interessato molto, ma fu un avvenimento di quei giorni.

Amedeo Fernandino di Savoia era il terzo genito di Vittorio Emanuele, nacque nel 1845 e, dopo le insistenze del Generale Prim – capo dei rivoltosi spagnoli – e l’autorizzazione del padre, divenne il Re della Spagna. Aveva circa 25 anni quando partì da La Spezia il 26 dicembre 1870. Quando sbarcò sul suolo spagnolo lo raggiunse la notizia della morte del Generale Prim, suo sponsor. Rimase Re di Spagna fino a febbraio 1873, dopodiché in Spagna tornò la Repubblica e lui ripartì per l’Italia.

Mi piaceva programmare. Era il mio luogo sicuro. Non dovevo relazionarmi con nessuno. Nessuno mi aveva mai raccontato e spiegato come dovevo vivere in mezzo alle persone, ma avevo imparato da solo la lingua dei computer. Uno o zero. Vero o falso. Nessuna sfumatura di grigio. Quando qualcuno si avvicinava, con qualsiasi intento, lo allontanavo con quella dose di ironia e cinismo, il primo ereditato da mio padre e il secondo da mia madre, e che avevo già visto impiantato nel chip di mio brother.

Non sono mai stato un ribelle; non avevo nessuno da cui ribellarmi. Ho sempre vissuto a margine di tutto e tutti. Vivevo in una sorta di silenziosa apparenza che mi era stata insegnata per non disturbare lo status quo. Ero in un deserto di ispirazioni e cercavo l’acqua da cui capire che strada prendere, ma le coppie erano già state fatte e nessuno mi pescava. Mi è capitato altre volte nella mia vita. Rimango da solo, perché le altre non tradiscono i propri compagni per l’ultimo arrivato. Ed è un circolo vizioso; tiri fuori la tanto agognata resilienza, che sarà la tua compagna fino alla fine dei tuoi giorni. Ti permetterà di sopravvivere, ma mai di vivere in pieno i tuoi giorni.

Iniziai a lavorare con Marco C.; Marco era alla mano, simpatico e burlone. Fatturava, fatturava e fatturava. Dava da mangiare ad almeno 10 famiglie con il suo stile tra Pozzetto e il Berlusca. E trascinava con le sue spalle tutta la banda. Grosso era grosso, ma aveva fatto solo le medie. Aveva iniziato a lavorare subito e le aveva provate tutte. Era nato programmatore e – un pezzetto al giorno – un venditore. Il mercato dell’informatica si era spostato dall’hardware al software e lui (con altri soci e amici) si era comprato la società per cui lavorava. Quando faceva i programmi non trascorreva un minuto per fare l’analisi dei requisiti dell’utente. Lui era i requisiti dell’utente. Con Marco mi trovavo bene; lui era il commerciale e io il programmatore. Io costruivo i programmi che lui presentava al cliente. Almeno fino a quel giorno quando, senza avvertire noi poveri manovali, le grandi menti laureate della società decisero che si cambiava tutto; sarebbe arrivato un nuovo responsabile dell’area programmazione. Avevo fatto l’errore di confidare a qualcuno che mi trovavo bene in quella società, perché avevo tempo per fare lavori di qualità. In fin dei conti l’avevo detto solo per far contento Marco, ma venni punito. Iniziai a lavorare con un certo Ciccio (nome di fantasia). Un violento (a parole). I miei colleghi festeggiarono quando videro che Ciccio aveva trovato la sua vittima. Pensavano di averla fatta franca. Tanto Marco era un capo affabile e generoso, quanto Ciccio era un capo irritabile ed egoista. Tanto Marco era intelligente, quanto Ciccio era uno stupidotto, facilmente aggirabile. I clienti di Marco erano difficili da conquistare, perché Marco sapeva farci, sempre. Non perdeva un colpo. Era disponibile, attento e concentrato sulla soddisfazione dei clienti (un antesignano della metodologia Agile), mentre Ciccio era egocentrico. Girava per gli uffici dei clienti con la sola idea di mostrare quanto fosse figo e avesse una risposta per tutto. Aveva un’auto sportiva americana, di colore verde acceso. Forse una Chevrolet. I ricambi di questa auto in Italia non c’erano. Ogni volta doveva farseli mandare dall’estero. Senza internet o il mercato unico europeo di oggi, trascorreva giorni in ufficio a fare ‘ste cose. Alla fine, acquistava ricambi falsi dimostrando di non avere il fegato per mantenere uno stile di vita che non gli apparteneva. Nel frattempo io diventavo il riferimento dei suoi clienti; i clienti non potevano credere ai loro occhi: avevano davanti una persona normale, io, dopo che per anni erano stati seguiti da un fantoccio come Ciccio. Facevo tutto da solo. Grandi telefonate e molti viaggi presso i clienti. La piccola azienda, allora, non ci dava un portatile per lavorare. Tutti i capi, tranne Marco a cui non servivano protesi tecniche per fatturare, fatturare e fatturare, avevano il computer portatile. E pure Ciccio. Il portatile era già un piccolo status symbol. Così come il cellulare di prima generazione, che veniva puntualmente clonato. Ciccio aveva il set completo: computer portatile, auto sportiva e cellulare. Aveva anche una fidanzata (che poi l’avrebbe tradito).

A Ciccio non mancava nulla, ma alla vita non interessa cosa hai, interessa chi sei. Come quel giorno quando dovevamo andare da un cliente in Via Torino. Una piccola società di tessuti, con la fabbrica in provincia di Milano. Per andare da questo cliente, che era in centro, bastava prendere un tram che partiva dalla Bovisa e che fermava dietro a Piazza Duomo. Poi due passi ed eravamo arrivati. Quasi da capolinea a capolinea. Saliti sul tram, non avevo nulla da fare, ma parlare era impossibile, perché Ciccio faceva solo monologhi. Sempre in competizione; se tu avevi scalato l’Everest, lui aveva scalato una montagna più alta e prima di te. Quel giorno, per fortuna, doveva lavorare al computer. Tirò fuori il portatile, credo un Texas Instrument (che divenne Acer nel 1998), e lo accese, mettendo la mano sopra le casse, perché sapeva che il suono di accensione di Windows di 95 (il jingle di Brian Eno registrato con un Mac) avrebbe svegliato l’intero tram. Lui lo configurava sempre al massimo del volume, per non passare inosservato. Mentre mi godevo questa scena come l’ennesima sceneggiata di un personaggio curioso – cosa avesse mai da fare in quel viaggio di 15 minuti che ci aspettava lo sapeva solo lui – il tempo passava e il tram si avvicinava a Piazza Duomo; il pc divenne operativo solo quando arrivò il momento di scendere. Accenderlo non era servito a niente, tranne mostrare che lo possedeva.

Un altro giorno Ciccio raccontò come l’auto rappresentasse per l’uomo un prolungamento del pene, sottolineando il fatto che lui guidasse una macchina sportiva americana – mentre io gli rispondevo ad alta voce che per lo stesso motivo prendevo tutti i giorni l’autobus, la 92. I miei colleghi ci ascoltavano e ascoltavano i miei racconti, accorgendosi che gli equilibri tra me e Ciccio erano cambiati. Lui non era più l’egocentrico e unico proprietario della verità assoluta, perché c’era qualcuno che aveva capito come trattarlo e quello ero io. In quel momento diventai un pericoloso pretendente alle posizioni di potere della piccola società e venni preso di mira. Battute del tipo: chi va con lo zoppo, impara a zoppicare avevano come unico obiettivo abbassare le mie pretese. Pretese che non c’erano, perché io volevo solo lavorare nella musica. Scrivere.

Mentre Prince stava lottando la sua battaglia contro la Warner, io rincorrevo in una sorta apnea questi umanoidi. Mi insegnavano molto, per carità, ma la paga era ridotta. Avevo iniziato a un milione e tre (circa 1.070 euro oggi secondo l’Istat), ma alla fine della mia esperienza avevo raggiunto due milioni e mezzo (circa 1.700 euro oggi, sempre secondo l’Istat). Chi inizia a lavorare oggi provi a fare il confronto e poi mi dica se le cose sono cambiate. Con queste cifre non andavo da nessuna parte. Non potevo comprare casa a Milano. A quel tempo il destinatario degli sforzi non ero io. Potevo impiccarmi con un affitto, ma non avevo quel coraggio: se paghi un affitto tanto vale che fai il mutuo, mi dicevano tutti. Qui bisogna vincere al Totocalcio disse un giorno mio papà. Intanto, io continuavo a scrivere musica.

Ciò che mi ha sempre salvato dalla depressione che ogni tanto sbucava nella quotidianità era la mia voglia di imparare. Potrei chiamarla curiosità. Quella cosa che ti permette di entrare nel circolo virtuoso riconosciuto anche da Skande: studiare quotidianamente, applicare le proprie idee, misurarne l’efficacia per ottimizzare la comunicazione successiva, incrementare un seguito che ti apprezzi e, infine, sviluppare una sensibilità nei confronti delle esigenze del pubblico e dell’evoluzione degli strumenti. Nel lavoro ero così, sempre attento a imparare qualcosa. Sia che fosse uno soft-skill o un tecnicismo. Non lo sapevo ancora, ma già applicavo il Ciclo di Deming. Si tratta di uno strumento per il miglioramento continuo formato dalle fasi Plan (pianifica) Do (fai) Check (verifica) Act (agisci). Guardavo gli altri, prendevo spunto, controllavo come finivano le cose e (se necessario) cambiavo qualcosa. Il mio obiettivo era di non creare casini. Fare in maniera che le cose continuassero lisce, così avevo anche il tempo per farmi dei sani cavoli miei.

La musica sembrava la mia sola vita reale, ma la musica rischia di essere una vita parallela. Si tratta di una realtà che potrebbe non avere punti in comune con la quotidianità. Quando si va a un concerto si entra in una dimensione creata dal musicista. Chi fa musica deve per forza sottrarsi dai doveri di qualsiasi persona. Eppure deve sapere anche come tirare avanti la baracca. Qui sta la bravura dei manager. O la bravura di chi si mette in ballo da solo, come avrei voluto fare. Ispirandomi a Prince e stando dentro queste dinamiche. Prince – grazie al successo e a un talento fuori dal comune – costruì in mattoni un luogo dedicato a questo mondo parallelo e che aumentava la realtà che lo circondava. Paisley Park è tutto questo, il sogno e la realtà. Io avrei voluto costruire la mia piccola Paisley Park, anche solo nel mio cuore. La mia cameretta divenne presto il mio studio, il Palatium Studio. Il nome Palatium mi rimase in testa quando studiai la vita di Carlo Magno.

Carlo Magno stabilì il suo il centro del potere non a Roma, bensì ad Aquisgrana, in territorio germanico. (…). L’intero complesso venne denominato da Carlomagno il suo “Palatium” esattamente come il colle a Roma, sede dell’imperatore romano. 

Scrivevo i crediti dei miei dischi fantasma sui numerosi bloc notes che mi circondavano. In uno stato di semi-coscienza provavo anche a gettare le basi dei miei testi. Spesso onirici o fantastici, raccontavano qualcosa che non c’era. Come questo brano intitolato Ultima Canzone. Un brano che ho scritto (testo e musica) nel 1998 e che un paio di anni fa ho mandato al mio amico Mark Balma. Lui l’ha rivisto così.

Il lavoro era in un vicolo cieco. Per quanto mi piacesse programmare, l’inutilità delle cose che facevamo era palese: gli anni passano e un giorno tira l’altro, ti trovi nella pigrizia di un lavoro poco redditizio – cantavo. D’estate non stavo più a casa e partii per il terzo viaggio negli USA: le scrivi cartoline da ogni posto che incontri e cominciano a scricchiolare anche i migliori sentimenti – sempre dal testo della canzone. Di ritorno dagli states venni accolto da una novità: ora che non ci sono più sguardi per il mio, ti racconto la storia che mi sono meritato io – infine scrissi e cantai.

Questa canzone di più di 20 anni fa ha avuto, come le altre mie cose, una strana traiettoria. L’ho tenuta in archivio per così tanto tempo, ma quando ho deciso che avrei chiesto a Mark Balma di fare musica con me – un passo non semplice – è stato uno dei primi brani che ho pensato di mandargli. Mark è genuino, schietto e istintivo. Fa il pittore e il musicista. Abita in Minnesota. Di origini italiane, piemontesi, l’abbiamo conosciuto nel 2016, quando decidemmo di acquistare una sua stampa con un ritratto di Prince. Mark è dotato di un talento artistico enorme, l’unica persona che posso definire con la parola Artista, per come vive e vede la vita. Come si dice: quando si è del mestiere si riconoscono i talenti altrui. E lui è così. Quando vede qualcosa nell’aria o sente qualcosa nella musica allora si muove. Con un tocco magistrale, lavora carpendo le idee che girano e rielaborandole secondo il suo filtro. Ecco, lavorare con Mark è bello, perché quello che fa è il risultato della sua esperienza. Lavori con lui, ma sei in compagnia di Pietro Annigoni, Leonardo da Vinci e Bob Dylan. Le sue passione sono ciò che l’hanno formato.

Io e Mark (Marco) Balma nel suo vecchio studio. Uno dei giorni più belli della mia vita. Foto by Giovanna.

Quando ha finito di lavorare a questa canzone era mattina: vivendo nel mid-west, per lui era passata la mezzanotte; me l’ha mandata mentre uscivo per andare a lavorare. Pendolando come capita a me, con gli strumenti offerti da 3nord, non potevo ascoltare il risultato del suo arrangiamento. E poi ero nervoso. Per la prima volta, a quasi 50 anni, c’era qualcuno che trattava seriamente la mia musica. Mi sembrava di essere dentro a un sogno. Non volevo ascoltare il brano per paura che questo sogno finisse. Come quando ero uno sbarbato e non parlavo con la ragazza che mi piaceva, perché avevo paura che mi rimbalzasse. Sì, va bene, quando sei più largo che alto, stempiato e con i denti storti, ci sono buone probabilità che ti rimbalzino, ma questo era il mio lato sognatore, che faceva fatica a uscire. Quella mattina neppure pensai di mandargli un messaggio per ringraziarlo. Tant’è che verso mezzogiorno – ancora notte da loro – ci scrisse la sua compagna per dirci che Mark era irrequieto, perché voleva sapere com’era andato il suo contributo. Era come con quegli animali che ci fanno paura, ma che poi scopri più impauriti di noi. E così, se io ero spaventato dal poter lavorare con un vero musicista e artista che stava trattando la mia musica con i guanti bianchi, lui era preoccupato di capire come avrei risposto alle sue idee. Come si sente dal brano, il suo lavoro fu splendido, sia perché con gusto aveva saputo riprendere la mia melodia (e trasformarla in un brano d’atmosfera, mentre io, chissà perché, pensavo a qualcosa di più rumoroso e rock), sia perché ne aveva curato la produzione. Oltre ad averci suonato dal vivo batteria, basso e chitarra, aveva mixato il brano e l’aveva passato a dei professionisti del mastering di Los Angeles. A conti fatti, quando ho saputo queste cose ho realizzato che il lavoro era diventato non solo un riconoscimento delle mie capacità come autore (e perfino come cantante), ma pure un brano che era stato prodotto. Mark Balma era il mio Rick Rubin.

Qualche tempo dopo ho fatto ascoltare in giro il brano, perché il sogno continuava e, malgrado le realtà quotidiane che mi stavano inseguendo, non volevo farlo finire. Ma un giorno è successa una cosa curiosa che un po’ mi ha spento l’entusiasmo. In questo tour virtuale che stavo facendo fare del brano prodotto da Mark, ho girato il link di soundcloud a un amico, semi-autore di libri, una sorta di collega a cui piace inventare delle cose. Quando ha sentito il brano mi ha fatto fare un salto nel passato. Un salto a quando ero sbarbato e facevo ascoltare i miei brani (oggi si direbbe inediti) in famiglia e agli amici. Quando qualcosa era indovinata la prima reazione era: l’hai rifatta bene. Il sottinteso era: tu non sei capace di fare qualcosa di bello. Se qualcosa che hai prodotto è bello da ascoltare allora significa che l’hai copiato. Senza entrare nei discorsi legati all’ispirazione e alla traspirazione, venire giudicato bravo a fare qualcosa solo quando la si rifà all’inizio è piacevole, ma ben presto si rivela una tomba. Lo scambio di battute con questo amico fu simile:

– ho ascoltato il brano
– grazie, cosa ne pensi?
– hai scritto tu le parole?
– sì
sulla musica di Balma…
– no, la musica è mia. Il brano l’ho scritto tutto io, testo e musica, negli anni 90…

Silenzio di ghiaccio, con quella brutta bestia che è il dubbio di non essere in grado di fare qualcosa del genere, che male mi fa. Se potessi tornare da me stesso a 20 anni gli direi: vai avanti per la tua strada. Si vive una volta sola. Guarda queste persone che hanno dedicato la vita al nulla, invece tu hai la possibilità di fare qualcosa di bello. Fallo. Insisti, non fermarti alla prima delusione. Non rimanere scottato da qualche gelosia.

Un giorno sarebbe arrivato il mio Mark Balma. Tutti hanno un Mark Balma nella loro vita.

Questo dialogo infelice non sarebbe mai successo con Mark e la sua compagna Paula. Quando si è negli Stati Uniti d’America è contagioso fare dei complimenti agli altri. Qualsiasi operazione che preveda l’iniziativa personale è apprezzata automaticamente. Riceve un riconoscimento di default. Invece in Italia la prima cosa da fare è bloccare gli entusiasmi. Non ne parliamo se poi cerchi di trovare una spalla dai tuoi genitori, che magari si ritengono in competizione con te e non vogliono che tu li superi dei loro presunti successi.