In questi giorni di relax al cinema c’è il film “Whitney Houston – I Wanna Dance With Somebody” (link imdb), intitolato in italiano: “Whitney – Una Voce Diventata Leggenda” (ma chi è che banalizza in italiano dei film stranieri?). Il film, uscito a 10 anni dalla sua morte e a 30 anni dal film The Bodyguard, rientra nella categoria delle biografie (o biopic) e, considerando l’argomento, diventa ben presto un film musicale. Non manca il dramma, perché sono diversi i momenti dove si ricostruiscono le performance canore di Whitney incrociando le note vicende che hanno segnato la sua vita personale. Anche se è capitato, non è mio costume parlare di altri musicisti in queste pagine dedicate a Prince. Con Whitney Houston faccio un’altra eccezione con questo post che potete leggere qui.
Il film è prodotto dalla Whitney Houston Estate, in collaborazione con Primary Wave e Clive Davis – dirigente della casa discografica Arista che pubblicò Rave di Prince. L’azienda Primary Wave, lo ricordo, è uno delle proprietarie della eredità di Prince (link) ed è (secondo il loro sito) “il leader mondiale tra gli editori indipendenti di musica leggendaria e famosa”. A febbraio del 2022, quasi un anno fa, il giudice aveva deciso di dividere le partecipazioni alla proprietà di Prince tra la “Primary Wave e i tre fratelli e i loro consulenti, L. Londell McMillan e Charles Spicer, che si dice detengano una quota del patrimonio.” (link) Non essendo un esperto di questioni societarie, non mi avventuro in percentuali, ma pare che Primary Wave detenga quasi il 50% dell’eredità di Prince. Detto questo, vedere il film sulla vita di Whitney, scomparsa nel 2012 per un annegamento accidentale nella vasca da bagno (wikipedia), può essere una buona anticipazione di come un giorno verrà trattato Prince in un film dedicato alla sua vita. E, con un po’ di ambizione, mi auguro che qualcuno di Primary Wave legga questo post e consideri anche l’opinione dei fam per la loro produzione su Prince.
La storia è in gran parte nota a tutti; Whitney viene scoperta e portata al successo planetario da Clive Davis (interpretato da un Stanley Tucci al limite della perfezione) con la sua casa discografica Arista. Dopo il successo musicale, Whitney sarà protagonista nel film The Bodyguard, al fianco di Kevin Costner, il cui nome da solo ha saputo smuovere gli ormoni delle donne presenti nella sala cinematografica. Già in The Bodyguard avevano raccontato la relazione omosessuale di Whitney con la sua amica e assistente personale, che ritroviamo anche in questo film, questa volta insieme alla storia distruttiva con il marito Bobby Brown e padre della figlia. Completano il quadro, la madre cantante e consulente artistica Cissy e il padre/manager John, accusato di avere sperperato la fortuna della figlia. Il film è stato scritto da Anthony McCarten, già autore di L’ora più buia, Bohemian Rhapsody e La teoria del tutto. Whitney è interpretata da una convincente (negli atteggiamenti e nella grinta) Noami Ackie, ma supportata dal canto della Whitney originale. Quello era impossibile da rifare per chiunque.
Il film condensa in quasi due ore e mezza la vita di Whitney come cantante, dai cori gospel in chiesa, all’ultimo giorno di vita. Per ovvi motivi, sono state fatte delle semplificazioni e alcune parti sono state edulcorate. La storia con Bobby è presente e se ne sente la drammaticità, ma ricordo bene che tra i due volavano accuse di violenza domestica che qui sono sottintese. La parte della figlia, che diventa testimone della decadenza della madre, è poco incisiva. Artisticamente, Whitney verrà accusata di essere un’interprete e non un’autrice, dimenticando le radici musicali nere. Whitney avrebbe cercato con Clive Davis di scrivere qualcosa di suo (questo l’ho letto proprio nella biografia del manager) e sarebbe stato interessante capirci qualcosa di più: come avrebbe voluto raccontarsi lei? Com’era il rapporto con gli autori dei suoi brani? Qui viene tutto risolto con delle cassette ascoltate nell’ufficio di Clive Davis. Le parti dove Whitney canta (in inglese) andrebbero sottotitolate, permettendo così di legare il significato dei testi delle canzoni con la storia che si segue sullo schermo.
Il risultato è un film che rientra nella categoria: “andate su Spotify per ascoltare un po’ di Whitney Houston, perché ha avuto un successo globale e aveva raccolto un numero irripetibile di premi”. Il film manca di quella profondità, anche drammatica, che ho visto in altre produzioni come Rocketman su Elton John (per ora il migliore della sua categoria). Non s’intravede l’ambivalenza tra la donna, con i suoi drammi quotidiani e la star che finisce sulle prime pagine dei giornali. Fa sfondo l’adorazione del pubblico, il denaro, la droga e il successo, ma non sappiamo nulla di come scovasse la canzone giusta o scegliesse un nuovo film da interpretare. Il dramma di Nippy – questo il soprannome di Whitney – e di Bobby viene risolto con un addio in un bar. I vestiti e i look sono i veri protagonisti delle scene, ma non può essere riprodotta la bellezza naturale di Whitney, che ne faceva un triple threat inarrivabile per le cantanti e campionesse su Instagram e a Radio Norba di oggi. Troppo attente attente alle foto in posa da pubblicare sui social. Si guardi, come esempio, Whtiney sorridente nella foto con l’attrice Cissy Tyson più sotto.
Ho visto Whitney dal vivo nel 1999 al Forum di Assago. Fu un concerto semplice, schietto, come quelli che si possono vedere nei locali sui navigli. Era uscito da poco l’album “My Love Is Your Love” (link), che usava il pop per raggiungere il RnB e che – in assoluto – è uno dei miei album preferiti, non solo di Whitney. Non dimenticherò mai il momento in cui il pubblico l’ha interrotta prima dell’acuto di I Will Always Love You e lei ha aspettato, riprendendo la voce, tossendo, partendo proprio da quella nota che tutti conosciamo (sotto vedete il video di quella serata). Un momento artistico indimenticabile e così reale, che nel film patinato è stato solo sfiorato mentre si è preferito raccontare frettolosamente le dinamiche famigliari e del business.
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