blog · Manca sempre uno per fare trentuno (ventuno)

21 aprile 2021

“Quest’anno cosa t’inventerai su Prince?” mi chiede un amico.
Scocciato gli domando: “Perché usi quel verbo?”
“Quale verbo?” mi chiede l’amico un po’ stupito.
“Inventare. Inventerai hai detto. Non mi devo inventare nulla su Prince”, insisto io.
L’amico cerca di rimediare: “Inventare nel senso di creare”.
“Non c’è nulla da creare. Ciò che scrivo sul Trentuno Ventuno è già dentro di me. Non devo inventarmi nulla. Non devo creare nulla. Devo guardarmi dentro e trovare le parole che riflettano cosa provo”. Con questa frase immagino che la questione sia risolta.
Eppure l’amico insiste: “Va bene, va bene, riformulo la domanda: come ti senti per l’anniversario della morte?”
Se prima ero scocciato, ora mi sta stufando: “Come fai a parlare di anniversario? Non c’è nulla da celebrare”.

Ho a che fare con questa realtà: da cinque anni Prince non c’è più. Non ci sono più le sue armonie e le sue ritmiche. Non ci sono più le sue ballerine e i suoi musicisti. Le dissonanze e le assonanze. Non ci sono più le sue idee rivoluzionarie sul marketing. Rivoluzioni che ha quasi sempre fatto in anticipo sui tempi. Non ci sono più le sue opinioni paradossali e controverse. Non distribuisce più diamanti e perle. Mi manca la sua insulsa gestione degli affari. Mi infastidiscono queste bande di artisti da due soldi che dobbiamo sopportare; si sono autoeletti rappresentanti della sua eredità, mentre quando lui era in vita lo snobbavano.

Siamo qui a misurare i giorni, i mesi e gli anni, ma quei 5 anni che sono passati dall’ultimo concerto, dall’ultima biciclettata e dall’ultima uscita in pubblico non esistono. Il pubblico che si allontana dalla forza di gravità della massa artistica si troverà in un tempo accelerato. Il tempo è figlio dell’essere mortale e come tale non può essere confrontato con la natura divina di Prince. Prince non misurava il tempo e per lui esisteva solo una cosa: la verità. 

Qual è la mia verità?

Della morte di Prince ho fatto fatica a crederci. Mi sono dato diverse risposte. Per qualche tempo ho immagino che la morte di Prince fosse l’ennesima operazione discografica. Dopo la prima morte artistica del 1993, questa del 2016 poteva essere un grande esperimento di marketing. In un primo momento l’avrebbe reso immortale. Ma l’esperimento sarebbe stato interrotto, che ne so, tra 7 anni, con un grande rientro di un Prince redivivo. Sono un po’ blasfemo, lo so, ma questi pensieri sono dentro di me.

Poi ho pensato che se ne fosse andato senza dirci addio. E siamo rimasti con quell’ultima frase: aspettate qualche giorno per dire le vostre preghiere. Tra l’ironico e il triste. Un uomo che stava aspettando indifeso la propria fine. Oppure un artista che usava l’ennesimo trucco retorico per attrarre gli interessi del pubblico?

Eppure Prince non l’abbiamo mai visto in difesa. Era sempre all’attacco per uscire dal proprio guscio di povertà provinciale. Acquisirà sicurezza entrando nei Testimoni di Geova. Creatore di domande e in cerca di risposte, aveva abbracciato una religione che, per definizione, non aveva nulla di sbagliato. Gli vietava le trasfusioni di sangue e gli permetteva l’abuso di antidolorifici, risultando letale per il suo corpo magro e esile. Una contraddizione che lo rendeva più umano di quanto lui non pensasse di essere, sbagliando nel credere di avere un rapporto privilegiato con l’aldilà.

Non sto molto ad ascoltare le verità degli altri, perché mi sembrano costruite con la libertà di chi sa che Prince non potrà più contraddirli. Quell’accordo di riservatezza che faceva firmare ai suoi collaboratori sembrava a difesa della sua privacy. Era anche uno muro eretto per dissuadere questa schiera infinita di ciarlatani che usurpavano il suo nome. I ladri nel tempio sono tornati. Ora raccontano storie inverosimili e s’impossessano della sua firma.

Ci sono i presunti linotipisti che, forti delle loro rendite di posizione, insistono nel volere  rappresentare i diritti (senza i doveri) della discografia. In questa maniera credono di rispettare la memoria di Prince, ma riescono solo a creare disappunto, allontanando quel poco di buono che la coda lunga sa produrre. 

Nel mio piccolo, rimango sulla riva del fiume e attendo che passi la tempesta. Proviamo a produrre un poco di ossigeno con la fotosintesi clorofilliana, così come Prince ci aveva alimentato con la sua miscela di funk e rock. Non mi faccio più illusioni. Sono convinto che la musica di Prince sia un elemento della natura che ci circonda.

Guardo quel bellissimo gatto nero che miagola da sopra il tetto della casa di fronte. Si allunga e si stira mentre con ritmo sincopato controlla ogni singola mattonella. Non si perde un movimento dei volatili che saltano da un’antenna all’altra. È il padrone di quel microcosmo in orbita sopra le nostre teste. È tutt’uno con il palco che attraversa. Lo possiede, come nessun’altro. 

Questo era Prince. Un uomo che era diventato musica. Lo adoravamo per questo; non aveva altre ragioni di vivere se non la musica. Se non la sua chitarra e il suo piano. La sua batteria e il suo basso. I suoi musicisti e le sue ballerine. I suoi assoli e i suoi testi. Quando se n’è andato, per non tornare più, si è portato via tutta la magia. Una magia che aveva priorità sulla sua vita.

“Come stai?” mi domanda il solito amico.
“Sto bene, grazie”.
“Allora, perché non scrivi più sul Trentuno Ventuno?”
“Perché manca sempre uno per fare Trentuno Ventuno…”

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